giovedì, 25 Aprile 2024

Birra e ananas per una moda sostenibile

Sommario
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La crisi non risparmia la moda italiana. Un settore che si avvia verso la transizione da un’economia lineare a un sistema circolare, ma c’è ancora tanta strada da fare. Il tessile è un asset chiave nella strategia futura dell’Unione Europea. La moda infatti è uno dei settori che può guidare questo processo. Una rivoluzione che avrà un impatto economico e ambientale sui modelli di business e sull’intero ciclo di vita del prodotto. Inoltre, l’universo moda collega diverse filiere e industrie. Si sta diffondendo sempre più, tra addetti ai lavori e consumatori, un approccio olistico basato sulla sostenibilità. Strategia che potrebbe portare a una maggiore consapevolezza del sistema e una minore frammentazione della catena.

Jeans da scarti di birra

Un effetto importante del processo di transizione avviato dall’Unione Europea è la maggiore sinergia tra filiere che operano in diversi settori. L’ultimo esempio virtuoso in questo senso arriva dall’Oriente. Una startup giapponese, Shima Denim Works, ha trovato il modo di utilizzare gli scarti della birra (foglie, gambi e trebbie del luppolo) per produrre jeans. Prodotti che stanno ottenendo un grande successo, tanto che poco dopo aver aperto le vendite il produttore ha ricevuto più di mille richieste di ordini. Tutto questo nonostante il costo non esiguo: 41.800 yen, circa 290 euro.

Un obiettivo reso possibile grazie alla collaborazione con il birrificio della Black Label, azienda di Sapporo. Le foglie, i gambi e le trebbie del luppolo utilizzato per ottenere la birra vengono trasformate in una carta sottile (waki). Carta che poi viene lavorata ulteriormente fino a diventare filato. Una pratica che permette di risparmiare acqua e tagliare significativamente le emissioni di CO2. Il cotone è infatti tra le fibre con il maggiore impatto ambientale. I pesticidi e i coloranti sono un problema diffuso nella produzione. Inoltre, i jeans realizzati attraverso questo processo sono più leggeri e traspiranti rispetto ai classici pantaloni. Per non parlare del fatto che, così facendo, aumenta anche il tasso di riciclo nazionale di prodotti. Rifiuti che altrimenti sarebbero destinati in discarica. Questo ridurrebbe, al tempo stesso, la nostra dipendenza dall’estero.

I tessuti vegetali, la moda tra etica e sostenibilità

Non solo il Giappone è virtuoso però, anche l’Italia. Dalla Sicilia, infatti, arrivano i capi tessuti con gli scarti della lavorazione industriale delle arance. Si tratta di una startup di donne che si chiama Orange Fiber, una innovativa realtà imprenditoriale che produce tessuti eco-sostenibili e ipertecnologici. Tessuti da cui nascono abiti “vitaminici” che rilasciano sulla pelle i loro principi attivi.

I tessuti ottenuti dalle centinaia di migliaia di tonnellate di sottoprodotto che l’industria di trasformazione agrumicola produce ogni anno e che altrimenti andrebbero smaltite, con dei costi sia per l’industria che per l’ambiente. Sono tutti di alta qualità e indirizzati al comparto moda-lusso.

In sostanza dagli scarti delle arance viene estratta la cellulosa atta alla filatura. Attraverso un processo produttivo brevettato che fa ricorso alle nanotecnologie, l’olio essenziale degli agrumi viene invece incapsulato e fissato sui tessuti. Da qui, ha inizio un processo di rottura delle microcapsule presenti nel tessuto, in modo automatico e graduale, che comporta il rilascio delle vitamine sulla pelle così di avere un capo non solo bello, ma funzionale al benessere del consumatore.

Esistono anche altri due tipi di tessuti vegetali ed etici. Si tratta di Piñatex, materiale realizzato da Carmen Hijosa, esperta di pelletteria. Ha creato un nuovo tipo di ecopelle a partire dalle fibre delle foglie di ananas. Poi, con questa sorta di pelle vegan realizza giacche e stivali. Un successo tale da conquistare anche Nike che ha utilizzato questo materiale per lanciare Happy Pineapple, la linea di scarpe che rifà il look ai modelli classici ma con un anima vegan.

Il cammino verso la transizione della moda

Ma non ci sono solo i materiali che sono importanti per rendere più sostenibile l’industria della moda. Nell’ultimo report pubblicato dall’Unione Europea risulta, infatti, che oltre il 60% dell’abbigliamento viene prodotto fuori dai confini europei, spesso attraverso pratiche sociali di sfruttamento e con impatti rilevanti in termini ambientali e culturali. Una scelta spesso consapevole, frutto di logiche di profitto, basate su costi repressi e sovrastimolazione artificiale del mercato. Basti pensare che nel 2020 sono state importate ben 8,7 milioni di tonnellate di prodotti tessili finiti, per un valore che si aggira intorno ai 125 miliardi di euro.

La direttiva europea 818 del 2015 prevede una transizione verso un’economia circolare, che trova terreno fertile grazie agli incentivi economici e all’interesse di molte imprese. E queste nuove regole del mercato, mettono chiaramente in moto un cambio di paradigma che investe tutte le aziende. Per quanto riguarda la moda, però, a parte qualche realtà, ad esempio il distretto di Prato, specializzato nel recupero, ancora poche aziende producono davvero in maniera circolare. E quindi a che punto siamo? La direttiva dell’Unione Europea ha imposto a tutti i Paesi europei di realizzare entro il 2025 un sistema di extended producer responsability (EPR), ovvero un approccio di politica ambientale nel quale il produttore di un bene è responsabile anche della fase post-consumo, ovvero della sua gestione una volta diventato rifiuto.

I regimi EPR adottati a livello nazionale hanno indubbiamente contribuito al miglioramento della gestione dei rifiuti, ma la Commissione Europea ha evidenziato la loro scarsa capacità di incidere sulla progettazione dei prodotti secondo la logica circolare, con particolare riguardo alle caratteristiche di durabilità, riutilizzabilità, riparabilità, riciclabilità, impiego di materiali riciclati e presenza di sostanze pericolose in fase di progettazione. I regimi EPR devono, invece, contribuire alla transizione verso l’impiego di prodotti durevoli, adatti all’uso multiplo, riparabili, tecnicamente ed economicamente selezionabili e riciclabili, realizzati a partire da materiali riciclati. La consapevolezza che sia necessario intervenire a monte dei processi di produzione, per poter affrontare il crescente problema della produzione eccessiva di rifiuti e ridurre gli impatti ambientale, esiste. Ma dalle parole ai fatti le cose cambiano.

Cresce l’attenzione per la moda circolare

L’espressione circular fashion è entrata per la prima volta nel linguaggio della moda nel 2014, anche se finora è rimasta un concetto piuttosto confuso. Oggi, però, sono sempre di più le aziende e i consumatori che sembrano crederci. Addirittura, secondo il rapporto di McKinsey & Business of Fashion, la circolarità sarà uno dei temi sempre più dominanti nell’ambito moda.

Questo nuovo attivismo intende perseguire gli obiettivi per una nuova economia della moda circolare proposti dalla Ellen McArthurFoundation, uno dei più grandi enti operanti nel settore dell’Economia Circolare e della sostenibilità. Che per prima cosa, tende ad eliminare le sostanze chimiche pericolose dalla filiera della moda.

I progressi in questo campo, sono stati importanti, e il panorama è radicalmente cambiato. Lo ha confermato anche l’organizzazione ambientalista Greenpeace che a fine 2021 ha pubblicato un rapporto in cui giudica l’evoluzione dell’uso di sostanze pericolose molto positivo nell’industria tessile. E, infatti, le liste di sostanze pericolose sono ormai un dogma per i marchi del fashion.

L’importanza di ridurre il consumo di risorse

Il secondo obiettivo, fondamentale da raggiungere, è ridurre il consumo di risorse. Questo passaggio non può ch essere fatto attraverso un nuovo modo di progettare, vendere e usare l’abbigliamento. La durata dei capi, la quantità di scarti e le possibilità di recupero e riciclo sono tutte operazioni particolarmente difficili, che richiedono lo sviluppo di nuove tecniche di progettazione e conoscenza dei materiali. Ma su questo tema, siamo ancora molto distanti e i grandi marchi ispirati ai principi dell’economia circolare restano ancora un’eccezione.

Il boom dell’abbigliamento di seconda mano

Molto più piede ha preso il fenomeno dell’abbigliamento second-hand. La moda di seconda mano e i negozi dell’usato non sono una novità, ma l’avvento delle piattaforme online hanno generato una crescita incredibile.

Secondo uno studio del Boston Consulting Group (Bcg)oggi il mercato della vendita di seconda mano vale 40 miliardi di dollari a livello globale, con una crescita prevista è del 15-20% annuo, che porterebbe il valore del mercato a circa 75 miliardi di dollari nel 2025.

Terzo obiettivo: migliorare nettamente il riciclo. In questo ambito l’evoluzione è stata rapida. La riduzione nell’uso di energia da fonti fossili è diventata un obiettivo prioritario anche per i marchi della moda. È del 2019 il The Fashion Pact, un “patto” sottoscritto da un gruppo di grandi imprese, per il raggiungimento di tre obiettivi: zero emissioni entro il 2030; difesa della biodiversità e riduzione dell’impatto della moda sugli oceani. Il rapporto sull’avanzamento a un anno dalla la sottoscrizione mostra un progresso concreto verso gli obiettivi.

La transizione è iniziata

Detto tutto questo, tra luci e ombre, però il cambio di paradigma caratterizzato dai valori della circolarità e della sostenibilità, è confermato. La vera domanda, infatti, adesso non riguarda non il se, ma il quando si arriverà a un’effettiva e ampia riduzione degli impatti negativi della moda sull’ambiente la salute e la società. ©

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