mercoledì, 11 Dicembre 2024

Stati Uniti, la FED guarda con favore ai listini. E la BCE che fa?

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stati uniti

La conferma di un calo dell’inflazione Usa e l’annuncio del Presidente della FED, Jerome Powell di un rallentamento della stretta sui tassi, ha aperto un dicembre potenzialmente favorevole per la maggior parte dei listini azionari e anche per i bond, anche se qualche curva ci potrà essere. 

Il mese di novembre si è chiuso con un sonoro acuto per i due principali indici azionari statunitensi: l’S&P 500 ha messo a segno un rialzo del 3,09%, che ha portato la performance mensile a +5,81%, mentre il Nasdaq Composite ha guadagnato il 4,4%, con un bilancio mensile a +5,3%.

La tendenza del mercato, che si era già mossa sul territorio verde a ottobre, potrebbe invertire la rotta ancora prima dunque che la recessione si sia effettivamente mostrata. Dicembre, nelle previsioni, dovrebbe così regalare un finale positivo su base mensile in continuità con il mese appena trascorso. Nonostante questo, però, l’inflazione che colpito tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti, qui non lo ha fatto in maniera così devastante come nell’Eurozona. 

Gli Stati Uniti, perché la FED può fare di più della BCE

Forse le azioni della FED sono migliori di quelle della BCE?

«Non è questo il punto. L’economia, è sicuramente in una fase complicata. Nonostante questo, però, l’inflazione statunitense, è guidata dalla domanda e dai salari in crescita e per questo la Fed intervenendo può controllare la spirale negativa. Situazione totalmente differente dall’Eurozona» dice Alessia De Luca analista Ispi esperta di politica statunitense. 

«Qui, infatti, l’inflazione deriva dal caro energetico dovuto al gas, dalle strozzature del commercio internazionale e dalle catene di approvvigionamento e quindi la politica monetaria della Bce può fare poco su quel fronte. La FED invece, ha mano più libera per ristabilire gli argini ed equilibrare la situazione. A fronte di questo, bisogna dire che comunque, non è  l’economia americana l’unica ad essere in difficoltà, sono quelle di tutto il mondo a esserlo. E, guarda caso, più delle altre quella cinese, che non ha ricominciato a crescere come ci si aspettava, a causa delle politiche zero Covid-19 che impediscono al Paese di riaprire completamente. Il Dragone sta attraversando una delle crisi economiche più severe della sua storia e questo, però, frena non solo la loro crescita, ma quella di tante altre. Nessuna sorpresa del resto: la globalizzazione ha anche questi effetti».  

L’inflazione, di cui alcune politiche del Presidente Joe Biden sono state anche responsabili, non è stata comunque argomento delle appena concluse elezioni di Midterm, vista la mancata “onda rossa” repubblicana tanto attesa e, al contrario, la tenuta dei Democratici. Risultati che hanno alleviato, oltretutto, i timori di possibili nuove turbolenze transatlantiche e garantito sulla salute della democrazia americana, almeno per ora.

Il timore del ritorno di Donald Trump, infatti, preoccupa i governanti europei fin dall’insediamento di Joe Biden, quindi sapere che il tycoon potrebbe aver perso almeno parte della sua influenza nel Partito Repubblicano non può che essere una buona notizia al di qua dell’Atlantico.

A questo punto la situazione americana vede: da una parte, nessuna sconfitta dei Democratici nonostante i sondaggi vedano il Presidente in carica perdere il suo appeal nei confronti degli elettori. Dall’altra, Donald Trump che ha detto che si ricandiderà, ma visto il risultato alle Midterm, anche il suo establishment ha accolto la candidatura con molto distacco. 

Previsioni elettorali? Impossibili

Quindi che succede? 

«Se la domanda intende riferirsi a cosa si può prevedere per il 2024, posso dire subito che due anni per la politica americana sono un periodo di tempo molto lungo in cui può succedere davvero di tutto. Tornando alla situazione che si è venuta a creare, è chiaro che le due situazioni sono strettamente collegate. Infatti, quel che succederà in campo repubblicano condizionerà moltissimo la parte democratica anche per quanto riguarda la candidatura di Biden. Ci sono sicuramente dei possibili sfidanti che possono scendere in campo per prendere il posto del Presidente, anche perché la questione età bisogna considerarla, visto che Biden ha 80 anni e ne avrebbe 82 anni al momento di ricandidarsi. Ma a parte questo, sono soprattutto i sondaggi che non parlano troppo bene. Detto questo, andrà comunque monitorata la situazione in campo Democratico, visto che in ogni caso Biden ha dalla sua il fatto di aver battuto Trump e di poter sostenere di rivincere scendendo in campo nuovamente. La mia sensazione è che lui si sia tenuto una porta aperta e che prenderà una decisione con l’inizio del nuovo anno. L’ipotesi di non ricandidarsi è reale, quello che mi pare più problematico è indicare qualcun altro di interessante. Sicuramente andrebbero fatte delle primarie, perché anche gli indici di gradimento del Vice Presidente Kamala Harris sono particolarmente bassi».

Ma quindi come mai quella che viene definita “ondata rossa” non c’è stata alla fine. Le premesse potevano farlo pensare?

«Non c’è stata per un fatto preciso e anomalo. Infatti, nelle elezioni di Midterm, ma come avviene la maggior parte delle volte per ogni votazione politica, pur essendo molto più facile per il partito di opposizione mobilitare il proprio elettorato usando la voglia di vittoria come strumento di pressione, in questo caso, però, la campagna dei Democratici è riuscita lo stesso a mobilitare il suo elettorato portando dalla sua parte parte quella categoria di indecisi che di fatto, ormai da anni, rappresenta l’ago della bilancia in tutte le elezioni. Una sorpresa, però, negli Usa, perché l’elettorato qui è molto polarizzato, calcificato lo definisce la stampa americana, e quindi è difficilissimo che si sposti da una parte all’altra. E allora la differenza la fanno appunto gli indipendenti, i quali in queste elezioni si sono fatti indirizzare da una grande ombra: il rischio per la democrazia,  anche alla luce del rovesciamento da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti della sentenza  Roe v. Wade, con la quale nel 1973 la stessa corte aveva reso legale l’aborto a livello federale. Il discorso di Biden ha convinto e ha creato quel famoso effetto mobilitazione che di solito il partito al Governo non riesce a fare. Detto questo, conta anche il fatto che il Partito Repubblicano anziché convincere ha deluso i suoi elettori, candidando esponenti ritenuti non adeguati». 

Le politiche di guerra degli Stati Uniti

Queste elezioni cambieranno qualcosa nello scenario della guerra in Ucraina? 

«Partendo dal presupposto che le elezioni americane non vengono mai decise sulla politica estera, anche se poi hanno una grande influenza su quello che accade in quest’ambito, diciamo che qualcosa sarebbe potuto cambiare se l’esito avesse visto una vittoria schiacciante dei Repubblicani e se gli equilibri al Congresso fossero stati stravolti, cosa che non è successa. Visto che i Democratici mantengono la loro maggioranza non solo al Senato, pur se labile, ma anche alla Camera, non credo che ci saranno stravolgimenti della politica americana nei confronti dell’Ucraina. Biden ha ribadito che non è questo il momento di abbandonare Kiev a se stessa. E anche il fatto che la Russia abbia annunciato il ritiro da Herson a due giorni dai risultati delle Midterm quando ormai si era capito che il Presidente non sarebbe rimasto un’anatra zoppa, come si dice in gergo, secondo me è indice del fatto che in qualche modo la linea statunitense sull’Ucraina rimarrà quella attuale. Quale poi sia questa linea è un altro tema, comunque oramai sono passati quasi dieci mesi dall’inizio della guerra, le voci di chi vorrebbe aprire un tavolo negoziale si stanno moltiplicando, speriamo che con l’arrivo dell’inverno e quindi con uno stallo sul fronte, ci si possa attendere qualcosa di positivo».

Italia più debole o rafforzata?

Questo supporto alla guerra della Nato/USA è stato pagato a caro prezzo dall’Italia, in particolare modo.  Questo ci rende più deboli?

«Secondo me questa visione di guardare i Paesi distinti l’uno dall’altro non funziona. L’Italia deve entrare nell’ordine di idee di fare parte un’Europa che deve con grande urgenza diventare un soggetto politico. Nei mesi scorsi, con Mario Draghi in qualche modo il nostro Paese ha contato anche nell’imprimere una direzione a un’Europa troppo spesso divisa, in qualche modo lacerata tra interessi divergenti. Ciò che dobbiamo fare è continuare a contare, anche perché l’unica cosa davvero evidente agli occhi di tutti, è come questa guerra abbia modificato gli equilibri d’Europa. Gli Stati Uniti, infatti, se fino all’altro ieri parlavano solo con Francia, Germania e Italia, in questi ultimi mesi si sono resi conto che la trazione versi i paesi dell’Est Europa è stata inevitabile. Essendo loro i paesi geograficamente più contigui alla Russia, il conflitto, li ha trasformati in un soggetto con cui non sarà più possibile non dialogare. Visto, peraltro, che anche se la guerra finisse domani, di certo non mancherebbero strascichi significativi. Quindi, alla luce di questo, non credo proprio che l’Italia si sia indebolita. Ha assunto il ruolo che doveva svolgere, ora però deve essere attenta a saper cogliere il cambiamento a cui stiamo assistendo in questi mesi e deve saper continuare a restare un attore di primo piano in un Europa che, per una volta, ha provato e sta cercando di svolgere il suo compito di attore politico».

Stati Uniti tra equilibri geopolitici e nuove alleanze

Gli equilibri geoeconomici globali sono da tempo in grande cambiamento e il sistema internazionale subisce la pressione del progressivo spostamento del baricentro economico mondiale verso Oriente. Washington sta riguardando le sue alleanze?

«Come ha detto Biden presentando la Strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti, il documento fondamentale che stabilisce le linee guida delle scelte del Paese, quella che si apre per i prossimi decennio sarà un’era di competizione, soprattutto con la Cina, che viene individuata come l’unico vero rivale strategico degli Stati Uniti e quello che ambisce a sostituirli al centro del sistema internazionale, a cominciare dagli spazi dell’Asia e del Pacifico. Non dimentichiamo che la guerra in Ucraina ha costretto l’attenzione di Washington in Europa, quando l’interesse preminente è, invece, nell’Indopacifico con una potenza in ascesa che è appunto Pechino. Ancora prima dello scoppio della guerra, già ai tempi di Obama, c’erano state frizioni con l’Europa a causa della chiara volontà degli Usa di, come dicono loro, “badare al giardino di casa”, con cui intende il Mediterraneo, il Nord Africa e anche il Medio Oriente, comunque il Mediterraneo orientale. Detto questo, non credo che ci saranno degli shift per quanto riguarda le alleanze però è indubbio che, come si è visto anche al G20, gli Stati Uniti cerchino di avvicinarsi sempre di più alleati in zona asiatica e questo è un fatto di cui noi dobbiamo essere coscienti. È evidente che il principale polo di attenzione per gli Usa sia l’Asia e la Cina. Tutto ciò non credo però che possa precludere l’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico che è comunque molto forte».                      ©

Simona Sirianni