sabato, 7 Dicembre 2024

L’influencer marketing è davvero sotto attacco?

DiRedazione

23 Febbraio 2023 , ,
Sommario
influencer marketing

Su TikTok emerge una nuova tendenza virale chiamata “deinfluencing” che promette di trasformare l’influencer marketing per sempre. Un settore che solamente in Italia vale 294 milioni di euro e che a livello mondiale nel 2022 ha toccato i 16,4 miliardi di dollari, destinato a crescere fino a circa 21,1 miliardi nel 2023. Il deinfluencing si schiera contro la cultura del consumo eccessivo, inutile e virale. Ma perché proprio adesso? Le pubblicità di cattivi prodotti ci sono sempre state, probabilmente si tratta di una combinazione di fattori: incertezza economica, inflazione e attenzione al tema della sostenibilità. Ed è così che i consigli per gli acquisti sono stati scavalcati da chi suggerisce cosa evitare. Si tratta di un fenomeno che, pur nascendo con intenti nobili, rischia di diventare contraddittorio e di perdere credibilità nel giro di poco tempo. Ma prima di analizzare la sua effettiva portata capiamo meglio in cosa consiste.

Il deinfluencing ha portato alla nascita degli anti-influencer, ora detti defluencers. L’obiettivo di questi ultimi è scoraggiare le persone dall’acquistare prodotti che in genere hanno visto un’ampia esposizione e popolarità sui social media ma che in realtà non valgono come affermato: gli utenti condividono quali non gli sono piaciuti e, talvolta, suggeriscono alternative. A prima vista, potrebbe sembrare un attacco crudo e diretto al settore dell’influencer marketing. Ma in realtà il deinfluencing rafforza ciò che i creators devono fare per aumentare l’engagement: ovvero essere onesti e trasparenti. Ma la vera domanda è: rafforza o indebolisce questo business digitale?

Le modalità del deinfluencing

La tattica del deinfluencing è esattamente opposta a quella del manuale del creator tradizionale. Finora abbiamo visto diversi approcci al fenomeno, possiamo citarne almeno tre. Alcuni creatori disincentivano i propri follower dall’acquisto di un prodotto solo per suggerire un’alternativa. Questa modalità è forse quella più business friendly: apre le porte a nuove potenziali pubblicità (ma anche ad accuse di conflitto di interessi). In altri casi, ci si limita a realizzare contenuti solo con prodotti che i creator hanno provato e che non sono piaciuti. La modalità più spinta si pronuncia contro la cultura del “più, più, più” che spesso domina la conversazione di acquisto sui social media. Invitando gli utenti a resistere alla corrotta cultura del consumo e pensare in modo più critico ai propri acquisti.

Il deinfluencing è una sorta di antidoto a una cultura online che vede gli utenti di TikTok pubblicizzare rapidamente prodotti dei quali sembra non si possa fare a meno. E anche se l’hashtag #deinfluencing accumula più di 210 milioni di visualizzazioni su TikTok, c’è da dire che in generale la percentuale di recensioni positive sui social media supera quella delle negative. Anche perché molti creators sono riluttanti a parlare di prodotti che non sono piaciuti per paura di perdere credibilità nei confronti del loro seguito e di qualsiasi altro partner potenziale o attuale.

L’influencer marketing è ancora al sicuro

Per i creatori alle prese con la crescente e feroce concorrenza guadagnarsi la fiducia del pubblico non è mai stato così importante. Piuttosto che respingere l’influencer marketing nel suo insieme, l’emergere del deinfluencing dovrebbe servire a ricordare che, quando si tratta di longevità e successo duraturo in questo settore, l’onestà e la trasparenza sono essenziali. Quindi possiamo inquadrare il deinfluencing come il segno di un continuo aumento degli standard che il pubblico impone ai creators. Almeno per il momento non indica la fine imminente dell’influencer marketing, piuttosto il contrario. Se ci pensiamo bene, deinfluencing e influencing sono essenzialmente la stessa cosa: creatori online che guidano le decisioni di acquisto dei consumatori.

Il valore del mercato

La crescente popolarità dei formati video brevi su piattaforme come TikTok, Instagram e YouTube, oltre all’ottimizzazione della raccolta dei dati, ha fatto volare i numeri del settore. Le vendite globali tramite piattaforme social nel 2020 valevano 560 miliardi di dollari e la curva di crescita non si è arrestata. Si prevede che il valore raggiungerà i 2,9 trilioni entro il 2026. Le stime attuali descrivono la crescita su base annua al 30,8%, cosa che porterà nel 2025 il social commerce a valere il 17% di tutto il giro d’affari relativo all’e-commerce.

Allo stesso tempo, oltre 50 milioni di persone nel mondo si ritengono content creator. Questi (a differenza degli influencer) monetizzano non solo facendo attività pubblicitarie ma anche attraverso i compensi erogati dalle stesse piattaforme. Per un giro d’affari complessivo che nel 2021 è cresciuto fino a superare i 104 miliardi di dollari. Mediamente per tutti i content creator, influencer compresi, stanno crescendo anche i margini di guadagno. Ma la cosa interessante è che la differenza non la fanno i contenuti, bensì i social in cui si lavora. Per esempio, secondo DeRev, società di strategia e comunicazione digitale, gli influencer su YouTube hanno visto i loro compensi aumentare fino al 60%, su Instagram fino al 33% e su TikTok fino al 22%. Male per chi lavora con Facebook, che li ha visti calare del 35%. ©