sabato, 5 Ottobre 2024

Le aziende fashion investano in trasparenza

Sommario
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Immaginate di non sapere da dove provengono 3 capi su 4. Bene questa è una semplice, ma accurata, rappresentazione del livello di “trasparenza” del settore moda. Catene di approvvigionamento poco chiare, lavoratori in nero e ampio spazio per lo sfruttamento. Questo è il quadro della filiera fashion nel 2022 (dati Fashion Transparency Index 2022 di Fashion Revolution). E se pensate che questa panoramica si riferisca solamente alla moda low cost vi sbagliate. Nessuno è escluso.

Oltre 250 tra i più grandi marchi fashion al mondo non offrono ancora abbastanza trasparenza. Il che significa che non possono essere ritenuti responsabili delle loro azioni. Queste aziende sono state analizzate in base alle loro entrate annuali, con particolare attenzione ai loro impegni per la trasparenza lungo tutta la supply chain. E sono state classificate con un punteggio che va dallo 0 al 100%. I marchi hanno raggiunto una media del 24%. Con un terzo di loro che ha ottenuto un punteggio compreso tra lo 0 e il 10% (incluse etichette del calibro di Valentino, Tom Ford e Marni). Mentre paradossalmente le aziende di fast fashion sembrano essere più “oneste”.

Salari dignitosi?

Ma il dato più significativo mette in luce che il 96% non rivela il numero di lavoratori a cui viene pagato un salario dignitoso. Non può esistere una moda sostenibile senza una retribuzione equa e dignitosa. Sempre su questo fronte, il 13% dei brand comunica quanti – tra i propri centri di produzione – abbiano a disposizione sindacati per i lavoratori. Numero che sorprende meno, in quanto molte aziende continuano a procurarsi gran parte della loro produzione di abbigliamento da Paesi in cui è impossibile, difficile e/o pericoloso per i lavoratori formare sindacati e contrattare per maggiori diritti.

Alcune stime suggeriscono che 3 operai su 10 dell’industria tessile nel mondo percepiscono uno stipendio al di sotto del salario minimo regionale o nazionale. E parliamo di cifre non adeguate, o comunque molto al di sotto, di quelle necessarie per poter condurre una vita dignitosa. Seppur questa problematica sia particolarmente accentuata nei Paesi asiatici, anche in Europa sussistono casi non proprio da manuale. Chiariamo cosa si intende per salario dignitoso.

Ovviamente non parliamo di una cifra universalmente applicabile, ma di una cifra variabile a seconda del Paese. Questo salario deve consentire all’individuo di mantenersi per vivere in un’abitazione di base. Con cibo e bisogni essenziali coperti e per far fronte a un evento o spese impreviste. Nel Regno Unito, ad esempio, un posto di lavoro su 6 non raggiunge questo livello. Tornando in Europa, invece, sapevate che siamo il più grande consumatore di abbigliamento prodotto in tutto il mondo?

Le iniziative per il cambiamento

Ne consegue che se attuassimo una politica più marcata sulla chiarezza per tutta la supply chain, questa avrebbe davvero il potere di apportare dei cambiamenti su vasta scala. In questa direzione spinge la campagna “Good Clothes, Fair Pay”. Così che 57 organizzazioni a livello mondiale si sono unite all’iniziativa, per chiedere una legislazione a livello europeo per garantire salari di sussistenza in questo settore. Nel dettaglio, la campagna ha lanciato una raccolta di firme per chiedere che le aziende che vogliono fabbricare o vendere prodotti negli Stati membri dell’UE rispettino determinati requisiti in termini di salari, diritti umani e sostenibilità. L’obiettivo della petizione è raccogliere un milione di firme, per essere poi registrata come iniziativa popolare europea, e chiedere alla Commissione europea di introdurre leggi sui salari dignitosi nell’industria dell’abbigliamento.

Per decenni la fashion industry è stata criticata per lo sfruttamento dei lavoratori, in particolare quelli nei Paesi in via di sviluppo dove il costo della manodopera è significativamente inferiore rispetto a quelli sviluppati. Ed è così che negli ultimi anni la trasparenza è diventata un’altra parola d’ordine nella moda. E, sebbene siano stati compiuti alcuni progressi da quando l’indice è stato lanciato per la prima volta nel 2016, probabilmente ci vorrà una legislazione, una legge compatta e comune, affinché ci sia una trasparenza diffusa in tutta la filiera. Il Fashion Act di New York, se approvato, richiederebbe ai marchi di riferire sul consumo di energia, sulle emissioni di gas serra, sull’acqua, sull’uso di plastica e sulla gestione delle sostanze chimiche, nonché sui volumi totali di materiali prodotti e sui salari medi per i lavoratori.

Lo sfruttamento dei lavoratori nella moda

Nel frattempo, la direttiva sulla sostenibilità aziendale proposta dall’Unione Europea richiederebbe ai brand di divulgare più informazioni in futuro. Quello che è certo e che lo sfruttamento dei lavoratori nell’industria della moda è una  questione complessa che richiede un’azione globale. La responsabilità è condivisa tra i produttori di abbigliamento, i rivenditori, i governi e i consumatori. Tutti hanno un ruolo da svolgere nell’assicurare che le condizioni di lavoro siano giuste e sicure per tutti i lavoratori. L’industria purtroppo, e soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, è artefice di quella che molti chiamano la schiavitù moderna. In luoghi come la Malesia, è noto che i lavoratori migranti pagano circa 5mila dollari per ottenere impieghi che alla fine hanno salari di povertà. L’impiegato deve lavorare per saldare un debito.

Con turni di oltre 12 ore al giorno per 6/7 giorni alla settimana, talvolta anche di notte. E nella maggior parte dei casi, non ricevono alcuna forma di compenso per le ore di lavoro straordinario. Altrettanto precari sono spesso gli ambienti di lavoro: insalubri e pericolosi per la salute degli addetti. Ad esempio, i lavoratori nelle fabbriche di tessuti possono essere esposti a sostanze chimiche nocive che possono causare problemi respiratori e malattie della pelle.

O come dimenticare il caso del crollo del Rana Plaza in Bangladesh, dove morirono oltre mille persone e ne rimasero ferite più di 2500. Questa tragedia fu una chiave di volta che puntò per la prima volta i riflettori sulle conseguenze delle scelte irresponsabili del sistema moda. In generale spesso la situazione nei Paesi più poveri è molto più grave di ciò che pensiamo. E ricordiamo che in queste regioni i lavoratori non godono dei diritti che vengono garantiti ai lavoratori nei Paesi sviluppati. Questo accade quando la produzione è dislocata in questi Stati per favorire interessi economici piuttosto che i diritti umani. Frutto di una mentalità che predilige la manodopera a basso costo a discapito di qualsiasi cosa.

Le ombre della supply chain

Non dimentichiamo infatti che quando si tratta di trasparenza lungo la catena di fornitura, la maggior parte dei marchi continua a non essere all’altezza. Se vogliamo guardare un lato positivo, sempre più aziende (il 48%) rivelano i propri fornitori, ma c’è un ma, si tratta infatti solamente di quelli di primo livello (le fabbriche in cui avviene il taglio, la cucitura e la finitura dei prodotti). Ciò significa che se i fornitori di queste aziende stanno lavorando con qualcun altro in maniera discutibile e poco chiara, noi non lo sappiamo. Vi forniamo subito un esempio di come alcuni dei più noti brand mondiali siano indirettamente collegati alla deforestazione.

La risposta ha un nome: Jbs. Si tratta della più grande azienda di carne bovina e pelle in Brasile, nonché una delle più grandi artefici della deforestazione nello Stato. Ed è così che uno studio di Stand.earth ha dimostrato come l’industria della moda sia collegata alla distruzione della foresta pluviale amazzonica. Più di 100 i fashion brands coinvolti, e parliamo anche di nomi del calibro di Lvmh, Prada e Fendi, che hanno avuto collegamenti (diretti e non) con Jbs. «Tutte le aziende di moda che si riforniscono direttamente o indirettamente da Jbs tramite produttori di pelli sono quindi legate alla deforestazione della foresta pluviale amazzonica – si legge nel report -. Inoltre, questi studi mostrano anche che mentre Jbs è il più grande esportatore di pelle e il più implicato nella deforestazione. Questo problema è endemico dell’intera industria della pelletteria».

La pelle brasiliana viene utilizzata in tutto il mondo da concerie e produttori per creare prodotti, molto spesso di lusso e di fascia alta, segmento che siamo soliti considerare Green o comunque a basso impatto ambientale. Questo è ciò che succede quando la trasparenza non è obbligatoria per ogni passaggio della supply chain: il consumatore non è realmente consapevole di ciò che compra.

Sembra dunque che le principali fashion companies siano più brave a condividere i loro obiettivi e poi a lasciare in sospeso quelle buone intenzioni o chiudere un occhio quando fa comodo. Come accade ad esempio con il greenwashing. Basti pensare che quasi la metà dei grandi marchi (45%) pubblica obiettivi sui materiali sostenibili, ma solo il 37% fornisce informazioni su ciò che costituisce un materiale sostenibile. La maggior parte delle iniziative di sostenibilità negli ultimi sei mesi da parte di marchi leader si è concentrata sull’innovazione e sulla tecnologia dei materiali, o su investimenti in tessuti alternativi. E, sebbene importante, l’attenzione dovrebbe essere posta con altrettanto impegno sul lato operativo, compreso il trattamento dei lavoratori e l’impatto ecologico della produzione di materiali.

L’importanza della trasparenza

Ma perché è così importante essere chiari e limpidi nel comunicare tutte le informazioni relative alla supply chain? In primo luogo è giusto che il consumatore sappia cosa sta comprando e chi realizza i suoi vestiti. Da dove provengono e in che modo le persone e il Pianeta sono stati influenzati dalla loro produzione. Questo è il primo vero passo verso la creazione di un’industria della moda veramente sostenibile, che offra una retribuzione equa ai lavoratori, libertà di sindacalizzazione e uguaglianza, insieme a principi come circolarità.

In tal modo chiunque è in grado di compiere scelte consapevoli e allo stesso tempo di avere un’immagine reale dell’impatto di un marchio e dei suoi capi su pianeta e esseri umani. Fa davvero riflettere il fatto che l’onestà della filiera (così come di altri settori) non possa essere data per scontata. Ma la trasparenza è davvero il minimo indispensabile; la punta dell’iceberg di un cambiamento che sembra ancora lontano.

A livello mondiale, i ricavi dell’intero segmento fashion raggiungeranno i 965,20 miliardi di euro nel corso dell’anno. Mostrando un tasso di crescita annuale (CAGR 2023-2027) del 9,39%, con un volume di mercato previsto di 1.382,00 miliardi di euro entro il 2027. Per il 2023 le stime indicano un volume di mercato di 328,60 miliardi di euro, con la maggior parte delle entrate generate in Cina. A dimostrazione dell’importanza del Paese per la moda e l’importanza delle relazioni commerciali tra la Cina e il resto del mondo.

Inoltre, non solo il business è in crescita, ma anche il numero di utenti sta aumentando. Si prevede che questi ultimi raggiungeranno i 3,38 miliardi entro il 2027. Con una penetrazione che aumenterà dal 34,7% nel 2023 al 42,6% entro il 2027 (il ricavo medio per utente (ARPU) previsto è pari a 362 euro). L’industria non fa che confermare la sua crescente e fondamentale importanza per l’economia globale. Anche se i suoi ritmi non sembrano essere abbastanza sostenibili per gli addetti e per il Pianeta. ©

Articolo tratto dal numero del 1 Aprile. Se vuoi leggere il giornale, abbonati!