martedì, 16 Aprile 2024

Cosa si nasconde dietro al fast fashion?

Sommario
fast fashion

Compra di più (anche se non hai bisogno) e usa di meno. Prezzi bassi e decine di collezioni l’anno (ben oltre le canoniche due/quattro), fanno del fast fashion una delle industrie più inquinanti (e redditizie) del pianeta. Questo business model, che secondo le stime supererà il valore di 200 miliardi di dollari nel 2030, è come uno tsunami incontrollabile che travolge tutto ciò che incontra. E il suo impatto è molto più forte di quello che si pensa e va a toccare anche il benessere delle piccole e medie imprese, fino alle condizioni dei lavoratori.
Sono poche le persone che possono dire di non avere un capo di colossi del fast fashion nell’armadio, e non è solo una questione economica: anche coloro che hanno ampie disponibilità non evitano questo genere di acquisti. La “moda veloce” è frutto di una cultura consumistica fuori controllo.

I numeri del fast fashion

La curva di crescita è in ascesa: nel 2021 il business mondiale ha toccato il valore di 91,3 miliardi di dollari, passando poi a 99,3 miliardi nel 2022. E le previsioni non accennano a rallentamenti: si stima che l’industria arriverà a 122,4 miliardi nel 2026 per poi raggiungere, nel 2030, cifre da capogiro. E se la matematica non è un’opinione, è lampante come un incremento simile se non controllato e limitato porterà una serie di danni. A partire da quello ambientale appunto. In generale, la moda rappresenta la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella del petrolio. Le cause sono da ricercarsi nell’utilizzo di pesticidi, formaldeide e agenti cancerogeni utilizzati per la produzione di abiti e tessuti. Processi che coinvolgono per la maggior parte le aziende di moda fast.

L’impatto ambientale

L’industria utilizza infatti volumi d’acqua insostenibili, 11 mila sono i litri necessari per produrre un chilo di cotone. E se vogliamo parlare delle emissioni, il settore è responsabile del 10% del totale di quelle globali di carbonio (dati Business Insider). Esattamente quanto l’intera Unione Europea (inclusi tutti i voli internazionali e tutti i trasporti via mare insieme). E ciò non sorprende se si pensa che ogni secondo viene bruciato o gettato in una discarica l’equivalente di un camion della spazzatura pieno di vestiti.

Alla luce di ciò fa paura pensare che, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, le emissioni della sola industria tessile saliranno del 60% entro il 2030. Mentre sono 92 milioni le tonnellate di rifiuti tessili che vengono buttati ogni anno. Vi dice niente il deserto di Atacama? Probabilmente l’avrete già sentito, è quella distesa di montagne di abiti usati situata nel nord del Cile. Una dimostrazione tangibile, e visibile a occhio nudo, dell’eco-disastro di cui la moda veloce è responsabile.

Le condizioni dei lavoratori nel fast fashion

Il fast fashion deve il suo successo anche all’apparente democratizzazione della moda, nel senso che adesso tutti sono in grado di vestirsi seguendo le ultime tendenze viste in passerella ma comprando a prezzi che da passerella non sono. Per sostenere questi ritmi incessanti, le aziende di fast fashion hanno spostato la loro produzione in quei Paesi in via di sviluppo in cui il costo della manodopera è molto basso, a fronte di turni di lavoro inumani. La conseguenza è la nascita di una nuova schiavitù moderna, ignorata e tollerata perché non sotto gli occhi di tutti, in cui gli addetti ai lavori sono sfruttati, sottopagati e lesi nella dignità.

Qualche esempio? Le condizioni disumane in cui vivono i lavoratori di Shein nella città di Guangzhou, in Cina. Secondo un’inchiesta condotta da una rete televisiva britannica, è emerso che gli addetti ricevono 4 centesimi per ogni capo prodotto, producendone circa 500 nell’arco di una giornata lavorativa di 18 ore con nessuna pausa e un solo giorno libero al mese. Emblematico fu poi il caso del crollo del Rana Plaza in Bangladesh dove morirono oltre 1000 persone e ne rimasero ferite più di 2500. Questa tragedia fu una chiave di volta che puntò per la prima volta i riflettori sulle conseguenze del frenetico mercato della moda. Insomma, questa è solo la punta dell’iceberg di ciò che si nasconde dietro le T-shirt che acquistiamo per 10-20 euro l’una. E il basso costo di un capo è spesso frutto di scelte poco sostenibili, da ogni punto di vista. ©

Dopo gli studi universitari in relazioni internazionali e un master in Communication & brand management inizia subito a lavorare nella moda a Milano. Scrive a tempo pieno per diverse testate occupandosi di business, moda, lusso e design. La conoscenza finanziaria maturata nell'editoria e l’occhio per le ultime tendenze sono i suoi punti di forza.