giovedì, 5 Dicembre 2024

Gli affari di Pechino in Africa

Sommario
Africa

L’Africa è il continente più giovane del mondo. La sua popolazione e la sua economia crescono a ritmi sconosciuti non solo ai Paesi più sviluppati, come quelli nordamericani o europei, ma anche agli emergenti asiatici. In quest’area geografica sono presenti alcune delle realtà più promettenti per il prossimo futuro, dal punto di vista economico.

Africa, continente del futuro

Entro il 2050 l’Africa subsahariana sarà la casa di più di un miliardo di persone, circa lo stesso numero di abitanti della Cina. La differenza però starà nell’età. Le politiche cinesi stanno causando un invecchiamento precoce del Paese, se paragonato al livello di sviluppo raggiunto, complice la cosiddetta “politica del figlio unico” .

Al contrario, gli africani con meno di 25 anni saranno il 50% del totale a metà del secolo. Questa crescita avverrà per due terzi in aree urbane, aumentando il potenziale per lo sviluppo economico industriale e nel settore dei servizi. Ciò allontanerebbe il continente dalla vocazione agricola che lo ha segnato nel secolo scorso.

Lo spostamento inevitabile di addetti dal settore primario al secondario e ai terziari non deve però distogliere l’attenzione dalla base di partenza da cui l’Africa si prepara a fare il grande salto. Il sottosuolo del continente ospita il 30% delle risorse minerarie globali ad oggi disponibili. Un tesoro che spingerà i Paesi africani verso un ruolo chiave all’interno dell’economia mondiale.

Da una parte c’è quello che da anni è l’export più significativo del continente: materie prime energetiche, oro e diamanti. D’altra parte, petrolio e gas naturale, che rappresentano da anni la ricchezza dei paesi del nord Africa, hanno cominciato ad essere estratti anche a sud del deserto del Sahara. La Nigeria e più di recente l’Angola, esportano ciascuno milioni di barili al giorno.

Oro nero e oro vero

Discorso simile per il gas, le cui esportazioni via nave dal Congo sono state parte del piano del governo Draghi per tagliare la dipendenza dell’Italia dalla Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Oro e diamanti valgono invece rispettivamente 20 e 8 miliardi di dollari ogni anno per l’economia del continente.

Ma accanto alle risorse tradizionali, si stanno facendo strada nuove materie prime, di cui l’Africa è ricchissima. Si tratta delle cosiddette terre rare, diciassette elementi della tavola periodica che hanno utilizzi estremamente specifici. Stanno però diventando sempre più importanti per lo sviluppo tecnologico mondiale. Il problema di questi minerali non è tanto la loro rarità – alcuni di loro sono molto comuni – ma la loro concentrazione.

Trovare giacimenti con una concentrazione che renda l’estrazione mineraria sostenibile dal punto di vista economico è difficile, ma in Africa c’è moltissimo potenziale da questo punto di vista. Al momento il mercato mondiale delle terre rare vale 9,2 miliardi di dollari ed è dominato dalla Cina.

Il ruolo delle terre rare nell’economia è reso cruciale dalla loro importanza sia nella costruzione di circuiti e semiconduttori, sia dalla centralità che hanno in molte tecnologie fondamentali per la transizione energetica, dalle turbine eoliche alle batterie delle automobili elettriche.

Controllarne il mercato significa quindi avere il possesso di una fetta del futuro dell’economia mondiale. Ma sarebbe sbagliato pensare all’Africa come il continente delle materie prime. Come già accennato, buona parte della crescita della popolazione sta avvenendo in città.

Il Kenya spinge per l’innovazione

Molti Paesi stanno passando da un modello di estrazione mineraria con grande dispendio di manodopera, ad uno che preferisce invece grandi investimenti di capitale per permettere alle procedure di meccanizzarsi, eliminando la necessità di un alto numero di addetti. L’Africa si muove verso l’industrializzazione, in maniera veloce.

Ma non si tratta soltanto di industria pesante o lavorazione delle materie prime, di cui il continente è ricchissimo. Ci sono Stati che stanno investendo anche sulla tecnologia più avanzata, come ad esempio il Kenya.

Pur trovandosi in un’area molto instabile, vicina al corno d’Africa e alla tormentata Somalia, con cui condivide il confine settentrionale, il Kenya è riuscito a tenersi fuori dalle tensioni politiche e militari che hanno caratterizzato l’aera negli ultimi decenni.

Al contrario ha imboccato una strada di crescita economica che dovrebbe permettergli di diventare, entro il 2030, un Paese dal reddito medio-alto. La popolazione è di 53 milioni di persone: simile a quella italiana per numero ma diversissima per composizione. L’età media è 20 anni (nel nostro Paese 44 anni), e a causa del passato coloniale, quasi tutti parlano inglese come lingua madre.

Un ambiente perfetto per sviluppare un fiorente settore tecnologico che punti all’innovazione mettendo al lavoro le migliori giovani menti locali: è così che è nata la Silicon Savannah. Il termine, che fa il verso alla Silicon Valley californiana, indica il ruolo del Kenya come hub tecnologica e digitale dell’intera africa subsahariana, aiutato anche da una delle migliori connessioni internet al mondo.

Oggi questo ecosistema di aziende e accademia vale 1 miliardo di dollari e ha già attratto gli investimenti di alcune delle più importanti aziende tecnologiche americane come Microsoft, Facebook e IBM.

La strategia USA in Africa

L’Africa rappresenta quindi un’opportunità per il futuro dell’economia mondiale. Porre i presupposti per il suo successo non porterebbe beneficio soltanto al continente, ma all’intero sistema globale. Per questa ragione sia l’occidente sia i giganti asiatici hanno tutto l’interesse a facilitare l’uscita dalla povertà e l’entrata nel novero dei paesi sviluppati di ogni Stato africano.

E anche per questo motivo, alla fine di marzo Kamala Harrys, vicepresidente degli Stati Uniti, ha compiuto un viaggio ufficiale in tre paesi africani: Ghana, Tanzania e Zambia. Uno sforzo diplomatico importante, per il Paese che fornisce il maggior quantitativo di aiuti economici al continente. Miliardi di dollari (7,65 solo nel 2021) che vanno soprattutto a tamponare le situazioni più critiche dal punto di vista umanitario, medico-sanitario ed emergenziale in alcune delle aree più povere del mondo.

Un altro lato importante dell’impegno USA in Africa è la sicurezza. Stabilizzare le aree più calde dal punto di vista militare è diventata una priorità, alimentata dalla paura che le zone instabili potessero diventare terreno fertile per operazioni simili a quella dello Stato Islamico.

Il contrasto al terrorismo, concentratosi soprattutto in Somalia per impedire che Al Shabaab (un noto gruppo terroristico jihadista) prendesse il controllo del Paese, da anni in guerra civile, occupa quindi una posizione cruciale all’interno della strategia americana per il continente africano. Guerra alla fame, alla povertà e al terrorismo, operazioni sicuramente utili a porre le basi per lo sviluppo economico, ma che hanno un difetto dal punto di vista comunicativo: non costruiscono nulla di positivo, ma si limitano a eliminare i fattori negativi. E questo li rende più difficili da pubblicizzare. 

D’altra parte, fin dal momento in cui è arrivata, Harris ha dovuto fare i conti con una presenza ingombrante. Grande quanto l’aeroporto di Lukasa, capitale dello Zambia e ultima tappa del suo tour. Ma anche come quasi ogni strada, autostrada o ponte che ha attraversato. Questo perché quelle infrastrutture non sono state finanziate dagli stessi Stati africani o da qualche investitore privato. Portano invece la firma evidente di Pechino.

Gli investimenti cinesi

È la prova più evidente di come la Cina stia vincendo la partita per il continente africano, in particolare della porzione a sud del deserto del Sahara. Una campagna silenziosa e rapidissima, condotta senza quasi che il resto del mondo riuscisse ad accorgersene. In parte proprio per la scarsa attenzione che l’opinione pubblica occidentale riserva alle questioni africane. 

Il sistema messo in piedi da Pechino nel giro di appena due decenni ruota attorno al ruolo fondamentale di due banche controllate dallo stato cinese: la Export-Import Bank of China e la China Development Bank, che hanno concentrato i propri investimenti sugli stati ritenuti cruciali come Angola, Ghana, Zambia e Nigeria. Il settore preferito è stato quello dei trasporti che da solo si è accaparrato un terzo degli investimenti cinesi: oltre 40 porti sparsi per tutto il continente sono costruiti dalla Cina. Tuttavia, non si tratta certo di investimenti a fondo perduto.

Problemi di debito

I Paesi africani che ricevono aiuto dalla Cina si indebitano con le sue banche, e quando le infrastrutture di Pechino non bastano a spingere la crescita o elementi esterni intervengono a peggiorare la situazione economica, falliscono. È stato il caso dello Zambia nel 2020 e del Ghana nel 2022. In alcuni casi si parla di “Trappola del debito”, anche se stimare quali siano le vere dimensioni di questo problema è complesso. Solo nel 2021 ad esempio si è venuto a sapere che il credito cinese nei confronti dell’ormai fallito Zambia ammontava a oltre 6,5 miliardi di dollari, il doppio di quanto era stato dichiarato.

Secondo i calcoli del think tank Debt Justice però, nei primi 20 anni del nuovo millennio più di 150 miliardi di dollari in fondi cinesi avrebbero finanziato progetti pubblici e privati sparsi in tutto il continente africano. Se si considera l’intera Africa, questa cifra non è così rilevante e supera a malapena il 10% del totale dei debiti. Ma se si restringe il campo visivo alla sula zona a sud del deserto del Sahara, quella a cui Pechino sembra di gran lunga più interessata, si arriva ad un totale del 63%.

«Debito o non debito, per l’Africa la Cina continua ad essere una preziosa fonte di investimenti», dice Alessandra Colarizi, direttrice editoriale di China Files e autrice del libro “Africa rossa. Il modello cinese e il continente del futuro”. «L’Occidente si è dimostrato finora incapace di rivaleggiare in termini di impegno economico e velocità di esecuzione.»

Come ha avuto inizio l’interesse cinese per l’Africa? 

«Inizialmente è stato un interesse di tipo politico: la Cina maoista ha supportato i movimenti di liberazione nazionale, abbracciando la lotta del terzo mondo contro il colonialismo occidentale. L’interesse è poi cambiato nei primi anni 2000, quando l’amministrazione di Jiang Zemin ha lanciato la politica di go global. Le aziende cinesi hanno visto nell’Africa un mercato con basse barriere normative in cui cominciare a investire.»

Quali investimenti realizza la Cina in Africa e con quali obiettivi?

«Gli investimenti sono stati inizialmente focalizzati nelle infrastrutture di trasporto: per oltre un decennio la Cina ha finanziato grandi opere in cambio di petrolio e altre risorse naturali. L’Angola è stato uno dei principali fornitori di greggio della Cina.

Questo interesse di tipo economico negli ultimi anni, in concomitanza con l’indebitamento dei paesi partner, è stato affiancato da un ritorno molto forte della politica. Oggi l’Africa è un’opportunità economica molto rischiosa, ma quei rischi sono bilanciati dal ruolo che il continente può ricoprire nella strategia estera di Xi Jinping, una strategia estera che ha il suo pivot nel Sud globale. Con oltre 50 paesi, l’Africa si è dimostrata una preziosa alleata in sede Onu.»

Alessandra Colarizi, direttrice editoriale di China Files

Quanto è stretto oggi il legame tra Cina e Stati africani a livello economico?

«Per la Cina meno di quanto non sembri. Gli scambi commerciali con il continente sono sui 280 miliardi di dollari. Per confronto, le transazioni con l’America latina valgono oltre 450 miliardi. Ripeto, l’economia non è tutto nei rapporti Cina-Africa.»

Il default dello Zambia sta mettendo alla prova questo sistema. Più recentemente anche il Ghana è andato in default. Deve a Pechino 1,9 miliardi e le negoziazioni sono ancora in alto mare. Ma Zambia e Ghana non sono casi isolati, il FMI ha individuato sei stati africani con debito in sofferenza e altri 9 ad alto rischio.

Come si sta comportando la Cina? 

«Il caso dello Zambia è a suo modo storico, perché per la prima volta la Cina ha accettato di partecipare a dei negoziati multilaterali nell’ambito del DSSI (Debt Service Suspension Initiative). In generale la Cina gestisce il problema del debito con scarsa trasparenza. I contratti sono vincolati da clausole di riservatezza. Pechino è favorevole a rinegoziare le condizioni dei prestiti e a posticipare le scadenze dei debiti, ma non a cancellarli, opzione che accetta quasi solo nel caso dei debiti a interessi zero.

La novità è che negli ultimi mesi il governo cinese ha cominciato ad avanzare la richiesta che a partecipare alle perdite siano anche gli istituti multilaterali come FMI e banche di sviluppo regionali, cosa che non è mai successa dalla firma degli accordi di Bretton Woods».

Cosa significa questa situazione per i progetti cinesi in Africa e cosa dice di quanto fatto fino ad ora? 

«La Cina sta provando a cambiare passo. La Nigeria ha dovuto sospendere alcuni progetti proprio perché le banche cinesi non erano disposte a elargire altro credito. La tendenza ora è a finanziare progetti più piccoli e a farlo con un maggior coinvolgimento del settore privato. Ad esempio le aziende cinesi stanno passando a un modello che prende in considerazione anche la gestione dell’infrastruttura una volta costruita (investimento integrato, di costruzione e funzionamento IICO).

Se le infrastrutture di trasporto restano importanti per creare vie di trasporto per le esportazioni di materie prime, stanno emergendo altri settori come quello digitale e soprattutto energetico. Quest’ultimo ha visto decuplicare gli investimenti cinesi nell’ultimo decennio.»   © 

Matteo Runchi