L’ex capo di gabinetto di Gentiloni auspica contro l’inflazione unità tra strategie monetarie, fiscali ed economiche.
A gettare benzina sul fuoco arriva l’ultimo dato sul PMI: nell’Eurozona è pari a 43,4, scendendo di quasi un punto e mezzo in un mese, in Italia è diminuito da 45,9 a 43,8 e in Germania – in recessione tecnica – a 40,6 (fonte: S&P Global).
Un pericolo depressivo che ci avvolge in una matassa complicata da sbrogliare. Il bandolo urgente da trovare è quello dell’inflazione. La BCE ci prova ad abbassare la fiammata dei prezzi, che ormai brucia i risparmi da un anno, inanellando la più grande serie di rapidi rialzi dei tassi da decenni.
FABI evidenzia la sofferenza del debito, tra credito al consumo, mutui e altro la cifra in Italia sono 15 miliardi le persone che non stanno ripagando i prestiti. «Da parte della BCE serve più cautela», ha avvertito il Presidente della Federazione Autonoma Bancari Italiani Lando Maria Sileri.
Il rischio depressione
«In questa situazione, se il compito di combattere l’inflazione è lasciato tutto nelle mani della BCE, il risultato non potrà essere che un’ulteriore depressione della domanda aggregata», dice Marco Buti, titolare della cattedra Tommaso Padoa-Schioppa all’Istituto universitario europeo ed ex capo di gabinetto del Commissario Paolo Gentiloni.
«È evidente che ci sia un forte rallentamento dell’attività economica, con la zona Euro in recessione tecnica. Se c’è un messaggio chiaro dall’esperienza della persistente bassa inflazione e dell’attuale spinta inflazionistica è che le altre politiche devono supportare gli sforzi della BCE. Senza ciò, la stabilità dei prezzi sarà raggiunta solo a costi molto più elevati per l’economia reale».
Però l’inflazione è molto diversa a livello europeo (in Spagna non raggiunge il 2%, come pure in Svizzera fuori dall’Eurozona). Ora la BCE è pronta ad altri rialzi: questa omologazione rischia di portare a disunioni nella UE?
«La politica monetaria è unica e deve applicarsi alla media dell’Eurozona. Peraltro la dinamica di Paesi come la Spagna riflette la politica dei prezzi dell’energia che è stata diversa di quella della maggior parte dei Paesi europei, a parte il Portogallo. D’altra parte, la politica monetaria, pur nelle innovazioni dell’ultimo decennio, ha uno strumento a disposizione. È il tasso d’interesse – e interviene con misure straordinarie specifiche per Paese, solo se emergono rischi per la stabilità finanziaria, attraverso il TPI. Il messaggio precedente sulla responsabilità delle politiche economiche – nazionali e comunitarie – si applica anche alla eterogeneità delle conseguenze di una politica monetaria adeguata per l’euro zona. È la logica del funzionamento di un’area valutaria: non è diverso negli USA, fra i vari stati americani».
Le relazioni tra Germania e Cina
La Germania – il primo partner commerciale per il sistema produttivo italiano – continua a coltivare intense relazioni con la Cina: come giudica la cosa?
«La crisi energetica ha messo in luce l’obsolescenza del “business model” europeo, e più in particolare di quello tedesco. Far dipendere la crescita prevalentemente dalla domanda estera non è dimostrazione di competitività, ma una fonte di sostanziale vulnerabilità. Applicando questo principio all’Eurozona, un surplus persistente delle partite correnti significa che una grande area economica sottrae sistematicamente domanda al resto del mondo.
Superare le tentazioni neo-mercantiliste mantenendo un’economia aperta è una delle grandi sfide della politica economica europea. Sfida che diviene geopolitica se, in un mondo frammentato e guidato da una logica di potenza, il partner privilegiato – la Cina – non fa parte del “circolo della fiducia”. Se poi l’approvvigionamento energetico viene essenzialmente da un solo Paese – la Russia – il cerchio si chiude».
I debiti dei Paesi UE sono cresciuti nettamente con le misure straordinarie di sostegno a seguito della pandemia. La stessa Germania è al di sopra, anche se di non molto, del rapporto debito/PIL richiesto dal Patto di Stabilità. Come gestire questa deriva?
«Il debito pubblico è aumentato durante la pandemia e per buone ragioni. Adesso però va messo su una traiettoria discendente graduale, ma credibile. Si può fare senza tornare all’austerità che ha dominato durante la grande crisi finanziaria degli anni dieci. In termini di gestione della finanza pubblica, questo significa eliminare i sussidi che sono stati necessari per fronteggiare la crisi energetica, privilegiare gli investimenti. Come indicato nel PNRR, oltre a recuperare livelli adeguati di surplus primario.
Ma senza l’impulso dal lato denominatore (la crescita), non sarà possibile garantire una riduzione continua del rapporto debito PIL. È questo l’obiettivo delle proposte della Commissione di riforma del patto di stabilità e crescita che dovranno essere approvate entro la fine dell’anno, come ribadito dall’ultimo Consiglio europeo. Politiche fiscali prudenti che mettono l’accento sulla qualità delle finanze pubbliche sono il primo esempio di come le politiche nazionali possono aiutare la BCE a mettere sotto controllo l’inflazione. Riducendo così i costi per l’economia reale e l’occupazione.
I Paesi del sud Europa, malgrado l’inflazione, sono attualmente quelli con maggiore crescita del PIL nell’Eurozona: può essere un segnale d’inversione di una tendenza?
«I Paesi periferici stanno avendo una performance economica positiva, migliore di quelli core dell’UE. Ci sono fattori contingenti che spiegano questo risultato. Penso agli alti sussidi per calmierare l’effetto dell’aumento dei prezzi dell’energia e al forte rimbalzo del turismo e dei servizi dopo i lockdown. Ma anche fattori più strutturali (quali le riforme fatte durante gli anni duri della crisi dei debiti sovrani).
Tuttavia, non bisogna farsi illusioni. Se l’opportunità di promuovere gli investimenti e le riforme data da NGEU attraverso i PNRR non sarà sfruttata a pieno, c’è il rischio di un contraccolpo negativo anche in termini si stabilità finanziaria. Qui, i Paesi che hanno avuto dei programmi di sostegno dell’UE e del FMI sembrano beneficiare più di altri delle riforme strutturali e della pubblica amministrazione implementate al tempo».
Secondo Eurostat, la popolazione UE diminuirà del 6% circa tra gennaio 2022 e 2100, ovvero 27,3 milioni di abitanti. Nel frattempo, la sua composizione anagrafica sta cambiando radicalmente, con un tasso di dipendenza strutturale (l’incidenza di quella attiva sull’inattiva) che cresce a ritmi mai visti. Come affrontare il problema in modo non conflittuale e unitario?
«La stagnazione demografica, insieme alla dipendenza della crescita dall’export, all’intensità energetica dell’industria e il ritardo sull’adozione delle nuove tecnologie, è il “quarto corno” della crisi del modello di business dell’Europa. Incentivare la natalità va bene ma, anche se avrà successo, i risultati si vedranno solo nel lunghissimo periodo. Il tema dell’immigrazione non può essere eluso. D’altra parte, anche con politiche di sostegno alle terre d’origine, la pressione migratoria continuerà.
Ci vorranno decenni per portare il reddito pro-capite dei Paesi dell’Africa sub-sahariana ai livelli di quello del Marocco o della Tunisia. Nel frattempo, aumenti di reddito potrebbero perfino condurre a maggiori spinte migratorie. Perché chi emigra sono le fasce della popolazione che possono permettersi di raggranellare un minimo di risorse per pagare gli espatri. È la grande sfida per l’Europa e per ogni singolo Paese. Bisogna superare il dilemma fra necessità economica e compatibilità sociale. Dei primi passi si stanno facendo sulla redistribuzione interna dei migranti. Ma siamo solo all’inizio. Servono poi politiche di integrazione che valorizzino la dimensione territoriale. Il tutto con meno ideologia. Alla luce delle esigenze di riformare il nostro modello di crescita, i trade-off sono nel breve, non nel lungo termine».
Le 4 sfide del 2023
Oltre all’inflazione, a inizio anno in una lectio magistralis alla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, lei elencava le quattro sfide del 2023: stagflazione, doppia transizione, frammentazione finanziaria e competitività. A che punto siamo?
«Penso che le sfide identificate allora siano quelle giuste. Ho detto dei rischi della stagflazione. Delle quattro sfide, quella che è rimasta sullo sfondo è la frammentazione finanziaria. Attenzione però: se le nuove regole fiscali europee non saranno approvate entro fine anno, l’abolizione della clausola di sospensione del patto di stabilità e crescita può andare di pari passo con tensioni sui mercati finanziari per i Paesi ad alto debito che si troveranno senza un sentiero di riferimento per le loro finanze pubbliche.
Sulla transizione verde, le divaricazioni politiche in vista delle elezioni europee rischiano di mandare messaggi ambigui al mondo delle imprese, che deve investire notevoli risorse per la parte energetica. Difficile fare investimenti di lungo termine in condizioni di incertezza regolamentare. Infine, la sfida della competitività sta mostrando tutta la sua complessità: essendo definiti dalla domanda, i sussidi della politica industriale statunitense, inizialmente quantificati in 370 miliardi di dollari, veleggiano verso il trilione. L’Europa non può reagire solo allentando le regole sugli aiuti di Stato: ai rischi di frammentazione finanziaria si aggiungerebbero quelli di frammentazione reale, mettendo a rischio l’integrità del mercato unico europeo. La sfida è di mettere in campo quei beni pubblici europei che, come indicavo nella mia lectio, aiuterebbero a ridurre i trade off macrofinanziari, allocativi e di sostenibilità».
Jean Monnet, come lei cita nel suo ultimo libro, diceva che l’Europa sarebbe stata forgiata dalle crisi. Quindi la risposta alla pandemia, all’inflazione e alla guerra ucraina può rappresentare il punto di svolta per un cambio di governance e come capacità di agire in modo coeso… La guerra in Ucraina ha evidenziato la capacità a coordinarsi a livello europeo anche su scelte militari. È un passo importante verso l’integrazione?
«Certamente, la risposta alla pandemia è stata più lungimirante di quella alla grande crisi finanziaria. È stato per così dire une “momento monnetiano”, ma non ancora un cambiamento di paradigma, un “momento hamiltoniano”. L’aggressione russa contro l’Ucraina richiede un cambio di passo verso una maggiore integrazione che affermi il ruolo geopolitico dell’Europa. L’unità nell’applicazione delle sanzioni è stata fondamentale. Ma non altrettanto si è fatto per mettere in campo una strategia economica e industriale che affrontasse i colli di bottiglia del business model europeo messi, in evidenza dalla crisi energetica.
Per questo è necessario abbassare il “tasso di sconto politico”: come argomento nel mio libro, se si allunga l’orizzonte di riferimento delle decisioni di policy, allora si ha una migliore chance di soddisfare quello che chiamo il “test di compatibilità” di Jean Monnet, assicurando cioè la coerenza economica, istituzionale e politica e permettendo quindi di superare linee rosse che sembrano oggi invalicabili. Il tema dei Beni pubblici europei è, a mio parere, fondamentale sia in campo economico (doppia transizione, innovazione tecnologica), che non economico (sicurezza, difesa). Per lanciare i beni pubblici europei va ricreata la fiducia fra gli Stati membri.
Condizione necessaria, anche se non sufficiente, è un’efficace esecuzione dei PNRR – soprattutto nei Paesi maggiormente beneficiari, come l’Italia – e l’adozione delle nuove regole fiscali europee. Spero che su questo si concentri la prossima campagna elettorale per le elezioni europee e si resistita la tentazione di farle scadere nel tipico maxi-sondaggio di opinione per misurare la forza relativa dei partiti e delle coalizioni». ©
Articolo tratto dal numero del 15 luglio 2023. Abbonati!
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