L’E3 finisce, la Gamescom rinasce. L’estate 2023 è uno spartiacque nel mercato dei videogiochi e delle fiere di settore. Quello che per anni è stato l’evento di riferimento per addetti ai lavori e fan sì è dissolto durante la pandemia, mentre il principale luogo d’incontro dell’intero segmento in Europa è sopravvissuto, sfiorando un ritorno ai livelli del 2019.
L’Electronic Entertainment Expo, meglio conosciuto in tutto il mondo dei videogiochi come E3, ha annullato la propria edizione del 2023. Sia la Entertainment Software Association (ESA) sia il promoter ReedPop hanno annunciato che l’evento, organizzato negli ultimi 28 anni nel mese di giugno, non ha generato il necessario interesse.
La fine della più famosa fiera di videogiochi al mondo
Non si è trattato di una decisione improvvisa, ma di una fine ormai inevitabile dopo le ultime edizioni fallimentari negli anni pandemici e il mancato ritorno a regime nel 2022. È fuorviante però dare alle restrizioni applicate per limitare il Covid-19 tutta la colpa della fine della fiera più famosa ed importante del mercato videoludico. Si è trattato infatti un cambiamento nel mercato stesso a determinarne la fine. È l’intera industria che, negli ultimi 5 anni, ha cambiato approccio nei confronti dei propri consumatori. Molti eventi sono stati in grado di accomodare questo cambiamento, ma per E3 non è stato possibile.
Per capire quanto la fine di questa fiera sia un segnale del cambiamento in corso nell’industria videoludica, bisogna tornare a quando la convention era l’epicentro del gaming. Nato nel 1995, in 10 anni di vita l’E3 aveva assunto dimensioni enormi per una fiera che doveva essere riservata a stampa e addetti ai lavori. Nel 2006 la ESA prese la decisione di riservarlo ai soli sviluppatori e ai media. L’anno precedente troppi blogger e curiosi avevano affollato gli stand, che erano arrivati a costare tra i 5 e i 10 milioni di dollari per le aziende che richiedevano più spazio.
E3 diventa grande
Nel 2009 però, con l’inizio dell’era delle grandi convention, l’E3 torna ad ingrandirsi ospitando 45.000 persone, ma lasciando ancora fuori il pubblico. Sono però gli anni delle console wars tra Sony con PlayStation e Microsoft con Xbox. Nel 2011 l’evento genera 25 milioni di dollari di indotto per l’area di Los Angeles, dove si svolge. Una cifra che salirà fino a raggiungere gli 88 milioni nel 2018, quando l’E3 venderà biglietti al pubblico sfiorando le 70.000 presenze.
La prima crepa, un indizio di come l’industria stesse cambiando, era arrivata già nel 2013. Una Nintendo in difficoltà dopo il fallimento della sua ultima console, WiiU, punta tutto sul lancio di un nuovo sistema di gioco ibrido. Potrà essere sia portatile sia fisso, supportare giochi della casa giapponese come decine di titoli di terze parti, ma non verrà presentata all’E3 come tutti si aspettano.
Nintendo anticipa la concorrenza
L’evento di lancio si tiene mesi dopo, a NewYork. Permette agli addetti ai lavori e alla stampa di provare Switch, la nuova console, mentre all’E3 Nintendo decide di non presentarsi del tutto. Gli anni successivi vedono una progressiva riduzione dell’importanza della fiera fino a quando Sony annuncia, prima che qualsiasi notizia sul Covid-19 fosse entrata in circolazione, che avrebbe disertato l’E3 del 2020.
È stata proprio Nintendo, con i suoi Direct, trasmissioni in streaming rapide in cui venivano annunciate le principali novità, a mostrare quanto una fiera come l’E3 fosse diventata obsoleta. Non si trattava infatti di un grande evento di pubblico, bensì di un’enorme fiera di settore, ma del settore sbagliato. Il gaming, con l’esplosione di piattaforme streaming come Twitch, si è legato indissolubilmente a internet e alla sua cultura. Una presentazione video vale per i media quanto una complessa sceneggiatura su un palco costato milioni di dollari, e raggiunge più appassionati.
Il riscatto di Gamescom
Se in America era l’E3 a dettare legge, in Europa la fiera di settore di riferimento per il mercato videoludico è sempre stata la Gamescom di Colonia. Nato nel 2009, l’evento tedesco è stato fin da subito aperto al pubblico, con un numero di presenze in continuo aumento nei 4 giorni di durata. Dalle circa 250.000 della prima edizione si è arrivati alle 370.000 del 2019, prima che la pandemia ne interrompesse lo svolgimento dal vivo.
Proprio quell’anno aveva esordito però una sorta di show di apertura, condotto dal famoso giornalista di settore Geoff Keighley: la Opening Night Live. Sfruttando questo particolare evento, gli organizzatori hanno cambiato la programmazione della fiera rendendola interamente online. Il traino della Opening Night Live riesce a mantenere l’interesse dei fan, mentre le interviste e gli annunci delle conferenze in streaming mantengono alta l’attenzione dei media.
Così due anni dopo, la fiera ha riaperto in maniera ibrida facendo registrare 260.000 ingressi. Il 2023 è stato l’anno del ritorno dal vivo e il pubblico ha risposto bene: dal 23 al 27 agosto 320.000 persone hanno partecipato alle conferenze e hanno visitato gli stand, con un indotto milionario per la città di Colonia.
Lo scenario italiano
Anche l’Italia ha le sue fiere dei videogiochi, che spesso si mischiano con il resto della cultura nerd. L’esempio più famoso è Lucca Comics&Games, un evento che per cinque giorni all’anno cambia il volto della piccola città toscana. Gli anni della pandemia sono stati duri, con edizioni ibride da poco meno di 20.000 presenze al giorno, ma fin dal 2022 la fiera è tornata a pieno regime, facendo segnare nuovi record di biglietti venduti. 320.000 persone hanno invaso le strade della città, che da anni ricava grosse cifre dall’indotto di questo strano tipo di turismo.
Da sola, la fiera toscana porta a Lucca, alla provincia e all’intera regione un indotto di circa 100 milioni di euro. Ed è in buona compagnia. Negli anni decine di altre manifestazioni simili sono nate tanto in piccole città di provincia quanto nelle metropoli come Roma, Napoli e Milano. Proprio nel capoluogo lombardo, nel 2019 era stata presa la decisione di fondere le due principali fiere, Cartoomics e Games Week, creando uno degli eventi più grandi d’Italia. In totale tutte queste realtà arrivano a un milione di presenze turistiche all’anno, con una ricaduta di 300 milioni di euro sui territori che le ospitano.
Dopo il Covid-19 le fiere sono quindi rinate, dando spazio fisico a una passione rimasta imbottigliata online per due anni. Un periodo, quello pandemico, che ha visto il settore dei videogiochi maturare ed entrare nella quotidianità di milioni di persone. È stato il salto definitivo da hobby di nicchia a passatempo di massa, ma i dati evidenziano come si sia in parte trattato di una fiammata alimentata dai lockdown e dalla necessità di un intrattenimento che permettesse di entrare in contatto con altre persone senza muoversi dalla propria abitazione.
Il mercato italiano resiste
Per l’Italia il rapporto di IIDEA, la Italian Interactive Digital Entertainment Association, che rappresenta i produttori di videogiochi, mostra una leggera flessione del mercato. Il giro d’affari totale si è assestato attorno ai 2,2 miliardi di euro, cifra ormai vicina a quella dell’editoria, 3,4 miliardi.
Buona parte di questi guadagni deriva dal comparto software, quindi dei videogiochi veri e propri, che rappresenta l’81,5% del totale, con 1,8 miliardi di euro circa. Ma anche questo particolare comparto è in lieve contrazione rispetto all’anno precedente, dello 0,5%. Ormai la quasi totalità di questo mercato si è spostato sul digitale, con le copie fisiche dei videogiochi che contano soltanto per il 15% del totale di quelle vendute.
Per quanto riguarda i supporti hardware, quindi le console comprate appositamente per giocare, la crisi dei semiconduttori ha causato una contrazione netta, del 7,7% rispetto al 2021, a causa di una mancanza cronica di componenti che ha rallentato le forniture. Il mercato si attesta comunque ad un valore di poco superiore ai 400 milioni di euro. Crescono ancora invece i videogiocatori, che sono ormai 14,2 milioni e comprendono tutte le fasce d’età, pur rimanendo di poco sotto ai 30 anni in media.
Videogiochi: le donne giocano quasi quanto gli uomini
Ben il 42% sono giocatrici, a sottolineare un cambiamento radicale in un hobby che per decenni era rimasto una quasi esclusiva maschile. Quasi il 70% dei gamer gioca su dispositivi mobili, veri portatori della rivoluzione all’interno del mercato. Le app sono su ogni telefono e hanno permesso un’espansione del pubblico mai vista prima. Cala però il tempo medio giocato, che scende sotto le 8 ore settimanali.
Pur rimanendo minore rispetto alle eccellenze europee come la francese Ubisoft e la polacca CDProjectRed, l’industria videoludica italiana ha cambiato passo. È passata da una realtà fatta di Startup a una più canonica per il tessuto produttivo del nostro Paese, quella delle piccole medie imprese. Un 40% del totale dei produttori di videogiochi italiani può essere identificato con questa definizione, ben di più rispetto al 30% del 2021. Il fatturato si aggira attorno ai 150 milioni di euro, il 30% in più, mentre cresce vertiginosamente anche il numero degli addetti, che passa da 1600 a 2400 in un solo anno, con un aumento del 50%.
I videogiochi italiani hanno bisogno di investimenti
Tuttavia, il principale problema sembra ancora essere la mancanza di investimenti esterni per supportare queste realtà in crescita. L’86% di esse fa ancora affidamento su soldi propri per finanziarsi, circa un terzo ottiene fondi dalle amministrazioni pubbliche, mentre meno del 20% ha ottenuto fondi da altri privati.
Sono anche in questo caso numeri in crescita, ma sempre troppo bassi per sperare di competere con il resto delle grandi multinazionali europee e mondiali, le stesse che stanno iniziando ad acquisire gli studi italiani in grado di distinguersi. Marco Saletta, Presidente di IIDEA, a margine di questi dati ha fatto presente la necessità di una strategia nazionale che possa permettere al settore di svilupparsi.
Il mercato internazionale
Non ha faticato con gli investimenti invece l’industria mondiale dei videogiochi, specialmente durante la pandemia. La crescita fatta registrare nei 18 mesi di lockdown ha reso le aziende videoludiche alcune delle più appetibili sul mercato, per i capitali di ogni provenienza. Secondo un report di Drake Star Partners, in oltre 1000 operazioni il comparto ha attratto 71 miliardi di dollari. Una marea di denaro che ha spinto molti a buttarsi nel settore: 9 miliardi sono stati attratti da nuove aziende, mentre quelle che già occupavano importanti fette del mercato facevano fronte a una crescente domanda di software e hardware.
Picchi mai visti, che erano però destinati a calare in breve tempo. Un destino che i videogiochi hanno condiviso con tutto il settore tech, anche se con conseguenze meno drammatiche. I dati, benché negativi su base annua, non hanno portato all’ondata di licenziamenti che a inizio 2023 quasi tutte le multinazionali della tecnologia, da Amazon a Facebook, hanno dovuto portare avanti per liberarsi del personale in eccesso assunto durante la pandemia.
I numeri del settore dei videogiochi
A livello globale, i videogiochi valgono 183 miliardi di euro nel 2022, con un calo del 5% rispetto all’anno precedente. A soffrire di più è il comparto mobile, e non a caso. Il -7% che si registra tra le vendite di app per telefoni infatti, proviene dal pubblico meno appassionato, che si approccia al gaming per la prima volta e non ha un forte legame con i brand che ne fanno parte.
Rimane il fatto che i giochi per telefoni cellulari sono responsabili ormai più della metà del totale degli introiti dell’industria. Console e PC seguono, con cali delle vendite minori rispetto al mobile ma anche con fatturati non paragonabili.
Se si paragonano questi dati a quelli italiani, si può notare una peculiarità. Nel nostro paese la riduzione delle vendite è la metà della media mondiale. In Italia, il mercato videoludico si dimostra più resiliente che altrove, anche se non crescono, a differenza di quanto accade in mercati più giovani come l’America Latina o il Medio Oriente.
Gli USA sono ancora il mercato più ricco
Geograficamente, il mercato più importante è quello asiatico, Australia inclusa. Quasi la metà delle vendite di videogiochi avviene qui, con la Cina che rappresenta a sua volta il 50% del mercato dell’intera regione. Il bacino di giocatori composto dalle popolazioni di Cina e India è troppo grande perché altre zone del mondo possano competere.
La penetrazione nella popolazione asiatica da parte dei videogiochi è tale che in Myanmar un movimento di resistenza alla giunta militare che governa il Paese ha creato una propria applicazione, War of Heroes i cui profitti finanziano l’attività politica, con ricavi attorno al mezzo milione di dollari in pochi mesi.
Il secondo mercato per importanza è quello nord americano, con Canada e soprattutto Stati Uniti che valgono quasi 50 miliardi di dollari. Gli USA sono ancora il bacino di pubblico più importante per le case videoludiche, L’Europa insegue a 33 miliardi, mentre gli unici mercati in crescita, Sud America, Africa e Medio Oriente, rimangono marginali, non raggiungendo insieme il 10% delle vendite totali. Sono queste le frontiere ancora inesplorate, che possono portare al settore la crescita e i profitti che la pandemia sembra aver portato via con sé. ©
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