La sostenibilità si impone anche nel regno dell’innovazione. «Il nostro domani è la ricerca e sviluppo», dice Susanna Martucci, fondatrice e Amministratore Delegato di Alisea, azienda che dal 1994 crea oggetti di design partendo da scarti di produzione e vincitrice del premio Gammadonna, assegnato alla società a conduzione femminile più innovativa dell’anno in Italia. La sua idea è nata ben prima che l’Italia diventasse uno dei Paesi più all’avanguardia nel campo del riciclo a livello mondiale.
La crescita del riciclo in Italia
Era il 1997 quando il Governo passava invece la prima legge sul trattamento dei rifiuti in Italia, il Decreto Ronchi. Ai tempi l’80% dei rifiuti finiva nelle discariche, solo il 21% di quelli industriali era riciclato e appena il 10% di quelli urbani. Si trattava di una vera e propria emergenza, che il nostro Paese ha saputo trasformare in opportunità grazie a innovazioni tecniche e tecnologiche significative.
Nel 2020, il 63% dei rifiuti urbani sono stati riciclati, mentre il totale ammonta al 72%, segnalando un’eccellenza dal punto di vista del trattamento degli scarti industriali. La media europea è lontana quasi 20 punti percentuali, ma questa volta verso il basso. In UE si ricicla circa il 53% dei rifiuti in totale e anche Paesi come la Germania si fermano al 55%.
Un’industria in piena salute
Dietro a queste cifre c’è un’industria in salute, ad alto tasso di innovazione e con un valore globale di 10 miliardi di euro, aumentato del 31% tra il 2021 e il 2022. Le imprese attive nel settore del riciclo dei rifiuti sono 4.800, gli occupati più di 236 mila. Un settore che produce non solo un miglioramento delle condizioni dell’ambiente, ma che diventa una vera e propria risorsa.
Dal riciclo provengono ogni anno più di 12 milioni di tonnellate di materie prime metalliche, principalmente acciaio. A queste si aggiungono 5 milioni di tonnellate di carta e cartone, 2,2 milioni di tonnellate di legno e altrettanto vetro, 1,7 milioni di tonnellate di compost e quasi 1 milione di tonnellate di plastica.
L’eccellenza italiana nel riciclo si sviluppa anche nell’ambito degli imballaggi, uno dei segmenti più sensibili allo spreco. Nel 2021, il tasso di riciclo si attestava attorno al 73% del totale, già abbondantemente sopra ai target europei per il 2025, fissati al 65%, ma anche di quelli con un orizzonte temporale al 2030, che puntano a raggiungere il 70%.
In questo specifico ambito è la carta ad essere un’eccellenza, con l’85% degli imballi riciclati. Ne consegue che il 63% di tutta la carta e il cartone prodotti nel nostro Paese siano fatti con materia prima proveniente dal riciclo.
Riciclo e innovazione
Tutti questi fattori si combinano creando un sistema produttivo ad altissimo tasso di circolarità, che si attesta attorno al 21,6%. Anche in questo caso la media dell’Unione europea dista parecchio, fermandosi al 12,8%.
Il settore ha trovato un riconoscimento del suo potenziale innovatore nel premio Gammadonna 2023, presentato durante la Tech Week a Torino. In finale ha prevalso Alisea, che partendo dal riciclo degli scarti di produzione e unendovi creatività e design italiani, ha creato un business in grado di esprimere la sostenibilità in tutti i suoi aspetti.
Qual è stato il percorso che l’ha portata a vincere il premio?
«Ho fondato Alisea quasi trent’anni fa. Il nome riprende venti positivi che portano verso un porto sicuro, declinato al femminile perché era un gruppo di donne. Mi sentivo il capitano di una nave, anche se non sapevo bene dove andavo. Tra le varie tormente e i tifoni di questi anni di lavoro nell’economia circolare siamo arrivati a vincere oggi questo premio per l’innovazione. Il mio lavoro è stato quello di inventare un lavoro. Nel ‘94 nessuno parlava di scarti.
Era normale che le aziende ne buttassero buona parte. Non c’erano nemmeno normative. Ho cominciato, insieme al mio team, ad andare azienda per azienda a vedere cosa erano questi avanzi di produzione. Quello che abbiamo visto è che c’era moltissimo materiale. A noi sembrava una risorsa, non uno scarto. Abbiamo quindi cominciato a creare oggetti, sempre orientandoci verso il design, a seconda sia di cosa volesse il nostro cliente sia di quello che era in grado di offrire. Le aziende ci informavano anche riguardo alla provenienza dello scarto e quale fosse il processo produttivo che lo creava».
Quali sono state le difficoltà?
«L’arrivo delle produzioni cinesi, a bassissimo costo e con repliche quasi perfette, rischiava di far fallire la mia azienda. Stiamo parlando di un periodo in cui non c’era l’attenzione all’ambiente e alle questioni di rispetto dei lavoratori che c’è oggi. Nessuno aveva nemmeno mai sentito parlare di impronta carbonica. Non c’era quindi nemmeno modo di agire su questi ambiti, per una mancanza di consapevolezza.
Per salvarci, quindi, abbiamo puntato sul materiale di cui erano fatti i prodotti e sulle mani che li producevano. In questo modo sono passata dal parlare con l’ufficio acquisti a trattare con l’ufficio marketing. Da una questione meramente economica, a una anche di immagine. Non vendevo più solo un prodotto, ma anche un valore».
Ora il nostro Paese è leader in Europa nel campo del riciclo, viaggia sopra la media e anticipa di anni gli obiettivi più ambiziosi. Come è nata questa evoluzione della consapevolezza ambientale del nostro sistema produttivo?
«La consapevolezza sull’ambiente ce la siamo costruita sul campo. Ci siamo accorti lavorando e vedendo cosa si buttava via, dagli scarti di lavorazione a prodotti finiti, scartati soltanto per una botta subita durante un trasporto, che eravamo un Paese di pazzi. In quei momenti è nata la coscienza che bisognava fare assolutamente qualcosa. Abbiamo obbligato le aziende a rendersi consapevoli di quello che buttavano via, a volte tonnellate di materiale ancora perfettamente utilizzabile.
Non esisteva una normativa, quindi pochissimi facevano caso ai livelli di spreco che venivano raggiunti. I nostri clienti non ragionavano in quei termini. Per loro consegnarci i materiali di scarto era semplicemente un modo come un altro per non pensare a dove buttarli. Fortunatamente poi sono state elaborate delle leggi. Oggi è normale, ma noi abbiamo cominciato a dirlo 30 anni fa.
Abbiamo vissuto l’evoluzione dall’interno, per quanto riguarda il riciclo, capendo che dare nuova vita agli scarti significa anche pensare al prodotto finito come qualcosa di bello. Inizialmente i design nati da materiali riciclati erano bruttini. Noi facevamo la differenza con l’estetica e la funzionalità di quello che producevamo. Certo, si sono evolute anche le tecnologie. All’inizio con una plastica riciclata non riuscivamo a fare quasi nulla. Oggi possiamo fare qualsiasi cosa.
La nostra coscienza sociale è cresciuta quindi insieme al nostro lavoro. Abbiamo imparato che un prodotto non è sostenibile solo perché è prodotto da materiale riciclati. Lo deve essere anche dal punto di vista sociale, deve garantire che i lavoratori che lo producono siano ben pagati e non sfruttati. Infine, anche la parte economica dell’azienda deve essere sana e questo lo abbiamo imparato immediatamente, quando abbiamo rischiato di non farcela all’inizio della nostra esperienza».
Il team iniziale di Alisea era composto da sole donne. Com’era fare imprenditoria femminile in Italia, alla metà degli anni 90?
«Dirò una cosa forte, ma io sono partita dagli scarti anche sotto quel punto di vista, perché le donne erano lo scarto del mondo del lavoro. Un certo tipo di carriere, di responsabilità e di remunerazione più elevate, ai tempi erano precluse.
Abituandomi a vedere il valore di quello che gli altri accantonavano, ho immediatamente capito quale potesse essere il valore delle donne. Anche io sono nata lavorativamente così. Ho voluto fare l’imprenditrice perché non ho passato un concorso in banca. Dopo un risultato brillantissimo all’esame, ho chiesto il perché non fossi stata scelta.
Mi è stato risposto che per quella posizione non era prevista una donna. I giochi erano truccati e questo l’ho imparato appena laureata. Quello mi ha fatto pensare a quante donne credevano di non essere in grado di fare qualcosa soltanto perché “non era prevista una donna” nel loro ambito».
La sostenibilità oggi è un elemento indispensabile per qualsiasi azienda: come vede il futuro in questo ambito?
«I brevetti che abbiamo presentato spaziano dalla moda all’edilizia sostenibile. La prospettiva ora è la condivisione con gli altri. Negli anni abbiamo sviluppato un metodo per fare innovazione, e vogliamo metterlo a disposizione di aziende, start-up, giovani che voglio davvero cambiare il mondo. Abbiamo capito così che la nostra energia si moltiplica quando coinvolgiamo altri nel nostro lavoro, incentrandolo sulla sostenibilità in tutti gli ambiti: ambientale, sociale ed economico.
È un processo che è cominciato nel 2013. Allora abbiamo iniziato a creare materiali che prima non c’erano, utilizzando quello che avevo imparato negli anni. La grafite è stato un esempio. Nessuno aveva mai pensato di utilizzarla in modi diversi. Finiva in discarica, sotterrata per sempre. Un mio cliente però mi ha chiesto un giorno di utilizzare i suoi scarti in grafite per fare una matita. Semplice, ma mi sono accorta che in Italia nessuno produce matite.
Non esiste una filiera produttiva, a nessun livello. Così ho dovuto crearla io. Ho pensato a come ne avrei fatta una, ignorando il modo in cui venivano fatte le normali matite e producendola con i valori che avevo imparato in questi anni. Un prodotto durevole, che utilizzasse scarti senza produrne». ©
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Articolo tratto dal numero del 15 ottobre. Se vuoi leggere il giornale, abbonati!