martedì, 30 Aprile 2024

Gaza: le conseguenze della guerra su gas e petrolio

DiMarco Battistone

15 Novembre 2023
Sommario
Gaza

Dopo i cigni neri della pandemia e dell’invasione russa dell’Ucraina, gli eventi dell’ultimo mese a Gaza minacciano un nuovo shock per l’economia globale. Intanto, un fatto è certo, ed è che quella “permacrisis”, che il Collins Dictionary citava come la chiave di lettura del 2022, in fondo non ha una data di scadenza, lo dice il nome stesso. Quali conseguenze attendersi? In molti pensano all’energia, alcuni guardano a gas e petrolio. Ma «naturalmente dipende tutto dalla domanda che, in qualche modo, continuiamo a porci da settimane», dice dice Nathalie Tocci, Direttrice dell’Istituto Affari Internazionali. «Questa guerra si allargherà oltre i confini di Israele e Gaza? Se così non fosse, sappiamo che sì, Israele è un attore sulla frontiera energetica, ma piuttosto piccolo. Di conseguenza è difficile che riesca a influenzare o spostare più di tanto i prezzi».

Nathalie Tocci, IAI

Ma c’è un altro aspetto…

«Sì, che però non riguarda tanto i prezzi, quanto più le quantità: il tema Israele-Egitto. Nel rigassificatore egiziano arrivano carichi di gas israeliano, e di lì giungono in Europa. Insomma, se ci fosse una diminuzione delle quantità totali estratte potremmo vedere diminuire anche i rifornimenti per il continente. Non è un caso che, a seguito dell’interruzione di questi carichi di gas liquefatti in Egitto, ci sia stato comunque un aumento dei prezzi. Ma se le cose restano limitate al perimetro Israele-Palestina, credo dovremo attenderci un impatto sui prezzi petroliferi limitato e un effetto su quelli del gas europeo un pochino più marcato, ma niente di straordinario».

Quali sono, invece, le probabilità di un allargamento del conflitto e che cosa potrebbe comportare sul piano energetico?

«L’invasione di terra è ormai iniziata, anche se in una forma diversa da quella che ci aspettavamo all’inizio – ci immaginavamo una sorta di scenario molto bianco o nero, tutti dentro o tutti fuori – mentre adesso ci accorgiamo che la realtà è fatta di molte sfumature di grigio. Ma la sostanza resta evidente: al momento vediamo un’escalation in corso a Gaza. E questo aumenta le probabilità che ci sia uno spillover regionale. E qui si apre la serie di scenari catastrofici studiati nell’ultimo periodo, che vanno dall’apertura di nuovi fronti col Libano alla rimozione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi in Egitto, che farebbe scattare una reazione non solo dell’Egitto, ma anche dell’Arabia Saudita, aprendo a una sorta di nuovo “scenario 1973”. La Banca Mondiale ha ipotizzato un quadro del genere, in cui i prezzi del Brent raggiungerebbero a 150 dollari a barile (per saperne di più, clicca qui, ndr). A oggi, continuo a pensare che non sia la proiezione più probabile. Ma è evidente che lo sia più di due o tre giorni fa».

L’Italia, nella sua ricerca di una maggiore autonomia sul piano energetico, si è trovata anche ad aprire discussioni per un accordo con Israele. Questo conflitto pone una minaccia immediata alle nostre forniture energetiche, anche se dovesse rimanere confinato?

«No, perché i carichi di Gas Naturale Liquefatto che arrivano da noi sono costituiti sostanzialmente da quello che viene prodotto dall’ENI, in Egitto e altrove. Di conseguenza, sulle quantità non vedo rischi. Naturalmente, il TTF è un benchmark europeo, e in quanto tale detta le condizioni anche per l’Italia. Anche il nostro Paese è colpito dai rincari già in corso, seppur in forma non estrema. Dai 30 euro al megawattora a cui eravamo tre mesi fa, nella settimana successiva agli attentati del 7 settembre si sono raggiunti i 54 euro. Ben lontani dai 350 euro al megawattora a cui eravamo arrivati al picco della crisi Russia-Ucraina, ma è comunque quasi un raddoppio. Detto questo, sembra che la situazione stia già allentandosi, con una graduale discesa nelle ultime settimane».

La dipendenza pressoché totale della Palestina da Israele, sotto un punto di vista energetico tanto quanto economico è diventata un’arma nelle mani dello Stato ebraico, con il blocco di Gaza. Ma potrebbe essere causa di ulteriori tensioni?

«Sì e no. Credo che, purtroppo, si tratti di un conflitto svolto su un piano così fortemente marcato dal radicalismo e dall’ideologia, da una parte e dall’altra, da far passare in secondo piano tutte le considerazioni di natura più materiale o razionale. Già nella guerra in Ucraina, l’energia ha svolto un ruolo chiave, ma solo in subordine rispetto all’ideologia. Se avessimo visto quel conflitto attraverso la lente dell’energia come elemento razionale prevalente, non avremmo visto la Russia suicidarsi nel modo in cui lo ha fatto. Tutto ciò che non è ideologia risulta strumentale alla stessa. In più, se questo tipo di ragionamento e di distinzione era importante e aveva un senso nella guerra di Putin, per Netanyahu l’energia non è una leva così forte. Di conseguenza, non è solo secondaria, ma anche piuttosto inefficace, come mezzo. Diverso è, naturalmente, se si prende in considerazione il caso di altri Paesi per ora esterni al conflitto. I Sauditi, ad esempio, avrebbero sì il potere di usare il petrolio come un’arma. Ma ad oggi non riesco a vedere questo scenario. Questo perché, se è l’ideologia a dominare la ratio tanto di Israele quanto di Hamas, non è così per l’Arabia Saudita. Paradossalmente, sarebbero ben felici di contrattare una normalizzazione dei rapporti con Israele sopra la testa dei Palestinesi, ma sanno che oggi non possono farlo, se non a rischio di vedersi rivoltare contro il proprio stesso Paese. Ma la prospettiva di un embargo petrolifero mi sembra piuttosto lontana da Bin Salman (Mohamed Bin Salman, Principe della Corona e Primo Ministro saudita, ndr».

In compenso, però, abbiamo visto il Consiglio di Stato libico chiedere di fermare le forniture di petrolio ai Paesi pro-Israele. È uno scenario realistico pensare che Paesi del mondo musulmano meno occidentalizzati dell’Arabia Saudita possano prendere altre misure simili?

«Fermo restando che, in realtà, i regimi arabi hanno sempre avuto poco a cuore la causa palestinese, questa resta il tema più sentito in assoluto dalle piazze. Il punto è: potrebbero le cose arrivare a un punto tale, che anche se questi regimi non ne hanno alcun interesse, siano portati a decisioni simili per ragioni di stabilità interna, più che politica estera? Ecco, se dovessi fare una scommessa, mi sembra difficile. Però, purtroppo, non si può mai dire mai, in queste situazioni».

Inizialmente si era parlato dell’invasione di terra come di una linea di demarcazione netta. Ora che di fatto è iniziata, non sembra che abbia accelerato più di tanto l’escalation. Quali sono le leve che rischiano ancora di far degenerare la situazione?

«Sono due le variabili principali. La prima è l’effettiva distruzione – e non l’indebolimento – delle capacità militari di Hamas. Io credo che questa sarebbe una linea rossa che farebbe scattare qualcosa. Naturalmente, Israele dice che vuole distruggere Hamas, ma credo sappia perfettamente che la cosa non è concretamente fattibile. Forse ancora peggiore è il tema dello sfollamento. Per comprenderne la portata dobbiamo immaginarci uno scenario. È stato spesso citato un confronto, a mio avviso improprio, tra Hamas e l’ISIS. Ma prendiamo questo confronto sul serio: gli americani ci hanno messo nove mesi a sradicare l’ISIS da Mosul. Un’organizzazione che, rispetto da Hamas, era quasi nulla dal punto di vista militare. Ora, se a distanza di poche settimane dall’inizio delle ostilità si registrano già 10mila morti e quest’operazione di terra va avanti – anche in questa forma – per mesi, forse anni ancora, stiamo parlando in proporzione di centinaia di migliaia di morti. Una tragedia che andrebbe di pari passo con lo sfollamento di masse enormi verso l’Egitto. Quella è un’altra linea, rossa scura più che rossa. Si spera che non la si raggiungerà mai, perché si tratterebbe di una catastrofe umanitaria di livello genocidale».

Gli Stati Uniti hanno fin da subito assunto un ruolo diplomatico di primo piano nella guerra, mostrando supporto dello Stato ebraico, ma cercando di mediare tra le parti. Che influenza può avere il fatto che le elezioni americane siano alle porte?

«Questa crisi non può che indebolire Biden, a partire dagli stessi prezzi energetici, un fattore che pesa e peserà nelle elezioni. Poi c’è il fatto di trovarsi impelagati, se le cose dovessero sfuggire di mano, non in una ma in ben due guerre insieme. È vero che gli americani non combattono direttamente, ma per un pubblico americano sempre più isolazionista, andare al voto con un presidente in carica fortemente coinvolto su due fronti di guerra non è un plus. Mentre la narrazione sulla guerra in Ucraina poteva essere ed è stata quella di un’America che ha fatto la cosa giusta e ha ottenuto dei risultati, se ci dovesse essere una deflagrazione in Medio Oriente, lo scenario sarebbe diverso. Gli elettori statunitensi vedrebbero un Joe Biden che fa un miliardo di capriole, ma a fronte di un risultato del genere sarebbe difficile venderla come un successo. Insomma, in generale, temo che la situazione non porti nulla di buono per il Presidente uscente».

Un altro grande sconfitto di questa escalation sono le organizzazioni internazionali. L’ONU, ma anche la World Trade Organization, che si trova in una posizione sempre più debole, a fronte dell’indebolimento del commercio globale. Qual è il futuro di questo tipo di istituzioni?

«Viviamo in un tempo in cui le organizzazioni internazionali, che sono state figlie dell’ordine successivo alla Seconda Guerra Mondiale e alla Guerra Fredda, vedono finire quell’era. Il problema è che non sappiamo in che era stiamo entrando. E ci vorranno anni, probabilmente decenni, prima che si ristabilisca un assetto di potere stabile, sulla base del quale costruire una nuova architettura. In pratica, siamo in un momento in cui, visto che non riesci a costruire niente di nuovo, di certo non distruggi il vecchio. Ma è evidente che questo abbia già fatto il suo. In questo, credo siamo arrivati al punto di non ritorno. Per anni si è dibattuto della riforma delle organizzazioni internazionali. Purtroppo, temo che quell’opportunità l’abbiamo persa. Noi come Occidente, in particolare, abbiamo mancato l’occasione per lasciare spontaneamente più spazio agli altri. E temo che non ci siano più i margini per una riforma del genere, anche se spero di sbagliarmi. Però – lo ribadisco – quello che c’è lasciamolo, perché altrimenti non resta niente. Faccio un parallelo con il tema degli armamenti nucleari. Il dramma della situazione attuale è che è stato demolito l’esistente – non c’è più un trattato tra USA e Russia sugli armamenti nucleari – senza costruire niente di nuovo. L’accordo precedente era forse criticabile, ma ora non ne abbiamo un altro. Mutatis mutandis, farei lo stesso ragionamento. A maggior ragione, non è questo il momento neanche per tentare qualcosa di nuovo. Il mondo è troppo diviso».

Lo spostarsi degli occhi del mondo sul nuovo conflitto potrebbe, paradossalmente, aprire una finestra di trattativa sull’Ucraina?

«La prima osservazione che mi viene da fare è che uno spostamento dell’attenzione mediatica e del dibattito pubblico non necessariamente si traduce in un cambio delle politiche e quindi del sostegno. In Europa, fino a pochi giorni fa abbiamo approvato 50 miliardi in più all’Ucraina, quindi siamo ancora più che impegnati su quel fronte. D’altro canto, noi europei non stiamo dando un supporto diretto a Israele, mentre il tema esiste più per gli Stati Uniti. Se dovessero aumentare in maniera molto significativa gli aiuti a Israele, potrebbero dover deviare parte di ciò che sarebbe andato all’Ucraina. Ma qui viene la seconda parte del ragionamento: se effettivamente dovesse diminuire il sostegno USA, questo aumenterebbe o diminuirebbe le possibilità di negoziato? A mio parere, le diminuisce. Perché Putin proverebbe a cogliere l’occasione per chiudere il conflitto sul campo. In ogni caso, credo che se gli Stati Uniti tagliassero il loro sostegno sarebbe più probabilmente l’esito dell’elezione di Donald Trump che della guerra in Medio Oriente. Ma se ciò dovesse avvenire, difficilmente migliorerebbero le prospettive di pace».                                                ©

Articolo tratto dal numero del 15 novembre. Per leggere il giornale, abbonati!

Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".