martedì, 21 Maggio 2024
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Intelligenza Artificiale

L’Intelligenza Artificiale non è una minaccia per i lavoratori, ma un’opportunità. La rivoluzione portata dall’AI preoccupa i professionisti di diversi settori produttivi, che temono di perdere la propria occupazione. Indubbiamente questa innovazione modificherà il mondo del lavoro in maniera radicale facendo sparire molte professioni, ma ne nasceranno altrettante. Lo dimostra il fatto che il lavoro del futuro nel 2030 sarà l’AI and Machine Learning Specialists, secondo il World Economic Future (“The future of jobs report”), seguito dal Sustainability Specialist e dal Business Intelligence Analyst. La sfida principale riguarderà la formazione dei giovani e la riqualificazione dei lavoratori.

«Ci aspettiamo conseguenze a monte e a valle dell’uso di queste tecnologie nel mondo del lavoro, con un impatto importante. Sono però convinto che l’AI, più che problemi, porterà dei cambiamenti che dovranno essere gestiti a livello di regolamentazione, di formazione, di scelte che orienteranno la commessa pubblica e privata. Dipende tutto da come sapremo affrontare l’opportunità, in quanto di opportunità di tratta, prima che di pericolo», spiega Antonio Baldassarra, Ceo di Seeweb.

baldassarra

«L’Intelligenza Artificiale, in particolare, sarà di grande aiuto nell’esecuzione di compiti ricorrenti e nella gestione di attività complesse, che prima non venivano proprio fatte e che oggi potranno essere addirittura automatizzate. La rivoluzione a monte riguarda la creazione dell’Intelligenza Artificiale. Ci saranno nuove filiere industriali e realtà impegnate nella realizzazione di soluzioni di AI e Machine Learning.

L’impatto sarà assolutamente positivo, sapendo cogliere l’opportunità. La vera scelta di fronte a cui ci troviamo è se vogliamo che il nostro futuro sia tra gli attori della rivoluzione, tra quelli che padroneggiano la nuova tecnologia e, magari, la fanno e la vendono oppure se ci rassegneremo ad essere solo un Mercato di questa innovazione, subendola, aggiunge Baldassarra».

Il saldo tra lavori che scompaiono e nuovi sarà positivo?

«Rifuggiamo dalla posizione che l’AI porterà appunto dei problemi. Dobbiamo solo predisporre la corretta azione normativa e regolatoria, nonché formativa, per reagire a questi cambiamenti. La vera novità è che, finora, le rivoluzioni industriali ci hanno abituato a vedere le classi operaie essere le prime colpite dalle innovazioni produttive mentre i cosiddetti colletti bianchi sono stati sempre al riparo dai rischi di doversi rimettere in discussione. L’Intelligenza Artificiale, invece, impatterà principalmente su tali figure».

Uno degli ostacoli alla crescita dell’AI in Italia è la scarsa disponibilità di grandi set di dati su cui si allenano i sistemi di Intelligenza Artificiale. È un problema semplice da risolvere?

«Oggi assistiamo a una rivoluzione che non è del tutto nuova. Stiamo usando algoritmi già noti, scoperti negli anni ’50. Cosa cambia? Abbiamo tante masse di dati, che però sono in mano a pochi player, i quali ne hanno accumulato enormi quantità di e hanno capitali incredibili. Noi non abbiamo questo stesso patrimonio di informazioni. È piuttosto paradossale, in quanto i dati sono nostri, ma non li abbiamo nella forma e nel volume che serve per addestrare le Intelligenze Artificiali. Però oggi il dato è un asset essenziale, quindi dobbiamo cogliere l’occasione di queste nuove tecnologie per costruire sistemi italiani e alimentare il bacino di dati da usare per uno sviluppo sostenibile, equo, compliant e positivo dei nuovi strumenti».

Intelligenza Artificiale

Ci sono altre problematiche da affrontare?

«Occorre anche porsi il problema competitivo. Può un soggetto che ha addestrato sistemi di Intelligenza Artificiale su dati che si è trovato incidentalmente tra le mani senza una solida base giuridica competere con altri soggetti che invece devono seguire delle rigide (benché sacrosante) normative? Se ciò fosse sarebbe un suicidio proprio da parte dei Paesi che si sono posti dei criteri di protezione dell’individuo e dei propri dati più avanzati.

Dovremmo anche pensare ad una regolazione dell’uso degli strumenti in base a quanto questi siano realmente certificabili a livello di rispetto delle norme nella loro filiera. Fortunatamente, un fenomeno inatteso si sta profilando: i modelli aperti, disponibili sia per scopi di ricerca, ma anche per fare degli affinamenti degli stessi in particolari settori. Ho molte speranze da questo punto di vista».

Parliamo delle problematiche legate all’affidamento dei dati critici italiani ad operatori esteri in partnership con operatori locali

«Prendiamo per esempio l’AI Generativa. Rappresenta proprio l’incontro tra il mondo del Machine Learning e quello dei dati. È cruciale capire che questi sono una grande risorsa e non possiamo farla circolare senza forme di controllo al di fuori dell’Europa. Inoltre, nei sistemi di Intelligenza Artificiale, a differenza delle altre tipologie di infrastrutture tecnologiche, c’è la capacità di produrre nuovi dati e informazioni con i Large Language Models (LLM). Questo è un aspetto nuovo che introduce rischi in quanto i LLM potrebbero essere inquinati per motivi economici o politici.

Tanto più i fornitori di tali servizi sono pochi, extra-europei e al di fuori della nostra raggiungibilità giuridica, tanto più il rischio è alto. Un problema che si affianca, superandolo, all’uso illecito dei dati personali. Il fatto che operatori extra-europei che non si sentono soggetti all’AI Act (o ad altre forme di regolazione vigenti nel Vecchio Continente) usino dei rivenditori dei loro servizi localizzati in Europa non aggiunge né toglie nulla al problema. Tuttavia, lo aggrava nella misura in cui il cliente ignaro ha l’impressione di acquistare un servizio da un soggetto europeo e quindi rispettoso dell’AI Act, quando poi in realtà è un mero rivenditore».

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Cosa ne pensa dell’AI Act? Come si potrebbe migliorare?

«Tutto è perfezionabile per definizione, ma non è il tema da perseguire al momento. Le voci che vorrebbero migliorarlo curiosamente coincidono con coloro che hanno difficoltà a rispettarlo nella formulazione attuale. Allo stesso modo, coincidono con soggetti extra europei che oggi sono sulla scena dei servizi correlati all’AI e che agiscono direttamente o tramite rivenditori o portatori di interessi. L’urgenza che vedo è evitare nella maniera più categorica che l’AI Act finisca per essere cogente con gli operatori europei di queste tecnologie, mentre saremo accomodanti con coloro che non possono o non vogliono essere conformi. Se questo accadrà, la normativa diventerà un formidabile strumento anti-competitivo che danneggerà l’industria del Vecchio Continente, che aspira ad avere un ruolo nella nuova era dell’Intelligenza Artificiale.

Fermandoci ai lati positivi però dobbiamo considerare che in Europa abbiamo un framework regolamentare chiaro e che consente all’industria del settore di poter operare al riparo da qualsiasi sorpresa. Un terreno definito e delle regole del gioco. La sfida è che tutti le rispettino e si faccia su un serio enforcement in tal senso».

Nel corso dell’indagine conoscitiva sugli impatti dell’AI esprimete preoccupazione sul fatto che la rivoluzione innescata tenda a configurare il nostro Paese più come un Mercato passivo che subirà l’innovazione, invece che un attore principe che la possa produrre. Cosa dovrebbe cambiare per non perdere una filiera produttiva importante?

«Siamo ancora in tempo per non configurarci esclusivamente come un mero spettatore dei cambiamenti in atto. Nulla è perduto, ma non dobbiamo accanirci né nella difesa né nella commiserazione. Occorre fare. Ci auguriamo che il nostro Paese non debba rimanere un osservatore passivo dei progressi introdotti dall’AI e dei cambiamenti da essa portati: dobbiamo essere dei costruttori. Non si tratta di perdere una filiera ma di stroncare i germogli che abbiamo nella culla e che vengono sistematicamente ignorati dalle tante indagini che ho avuto modo di vedere. La nostra preoccupazione è che l’Italia non sarà un attore principe di questo cambiamento. Non dobbiamo solo mirare a creare dei fruitori dell’Intelligenza Artificiale, ma anche dei creatori.

Vedo che esiste la sindrome del campione nazionale, che è un controsenso nell’ambito della tecnologia a livello mondiale. Le Big Tech dei vari settori, emerse in tutto il mondo, non sono degli eletti che vengono toccati con la spada dal signore di turno e trasformati in campioni. Questo Paese ancora è convinto di scegliere top down su chi puntare, come se esistesse in qualche stanza il funzionario che ha in tasca la formula del successo, ed eroga la sua benedizione al cavallo giusto a cui affidare un sacco di fondi. Spero proprio che non verrà seguita questa strada inaugurata dal precedente governo con il famoso PSN per il Cloud Nazionale, sul quale stendiamo un velo nemmeno pietoso ormai».

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Cosa si può fare a livello nazionale per rendere le imprese italiane competitive a livello internazionale?

«Utilizzare la commessa pubblica per la crescita del substrato industriale del Paese, in controtendenza con quanto si è fatto sinora. Non è necessario investire ulteriori soldi, ma solo orientarne l’utilizzo. Si tratta di un’azione a saldo invariato o comunque con impatto economico piccolo, eppure con un valore immenso per la nostra crescita e per il nostro progresso. Oggi, invece, assistiamo all’esatto contrario: il 70% della commessa pubblica in ambito cloud computing viene assegnato a soli 4 soggetti, direttamente o per il tramite di loro rivenditori, tutti rigorosamente stranieri ed extra-europei. Considerando che questa spesa è alimentata dal flusso fiscale e dal debito pubblico non credo meriti ulteriori commenti: indebitiamo i contribuenti del nostro Paese e alimentiamo la ricchezza di qualche soggetto straniero».

Come contrastare invece la fuga di cervelli formati nel nostro Paese in materie STEM?

«Fornendo un’istruzione di buona qualità. Non solo formando persone che sappiano usare le tecnologie, ma anche che le sappiano fare. Alcuni Atenei, invece, tendono a formare dei consumatori tecnologici e non dei produttori. Una gran parte di cervelli in fuga è approdata su aziende Tech. Trattenerli nel nostro Paese rappresenta oggi una grande opportunità, ma solo se non ci lasciamo sfuggire l’occasione.

Fornire un substrato industriale che possa agevolare questi talenti nel mettere a frutto la propria competenza e la propria passione nell’ambito di algoritmi e addestramento è poi essenziale. Quindi, formazione, ma anche il giusto riconoscimento economico e la possibilità di farsi valere nel Mercato del lavoro. E questo fa il paio con il creare un contesto favorevole allo sviluppo industriale europeo».

Quante sono oggi le Piccole e Medie Imprese italiane attive nell’Intelligenza Artificiale e nel cloud computing?

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«Ce ne sono molte, non tantissime, ma alcune di grande qualità e potenzialità. L’AI è una tecnologia abilitante e come tale trova tante applicazioni nei contesti più disparati. Il nostro primo cliente si occupa di drug discovery, scopre molecole con potere farmacologico utilizzando l’Intelligenza Artificiale. L’ambito cosiddetto biotech è molto attivo nel nostro Paese, così come lo è l’ambito medtech, che usa l’AI per migliorare la diagnosi delle patologie o la loro cura. Anche in questo contesto in Italia ci sono ottime PMI, che hanno ottenuto risultati commerciali o che hanno pubblicato articoli scientifici su riviste di caratura mondiale.

In ambiti che possono apparire meno nobili abbiamo brand domestici significativi nell’area degli automi linguistici per la traduzione, i sistemi conversazionali per gli usi più disparati, assistenti esperti in determinati ambiti etc. Alcuni di questi, in particolare quelli di maggior successo, hanno intrapreso la strada di usare tecnologie indipendenti e delle quali detengono ampio controllo. Pensiamo che questa sia la strada giusta, quella di tante Private AI autonome e prive di controllo esterno».

Passiamo al tasto dolente, gli investimenti. I fondi del PNRR per la digitalizzazione sono sufficienti?

«Ho ragione di pensare che i fondi PNRR nell’ambito del digitale saranno una iattura per il Paese, non certo un’opportunità. La percezione è che stiamo convertendo flusso fiscale e debito pubblico del contribuente in giro d’affari per pochi soggetti stranieri. Oggi i dati dicono questo». ©

Articolo tratto dal numero del 1 maggio 2024 de il Bollettino. Abbonati!

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