mercoledì, 24 Aprile 2024

Calcio e bilanci – Paolillo, ex Inter: «Gli stadi sono fondamentali per la ripartenza»

Ernesto Paolillo calcio e bilanci

Uno dei temi più dibattuti del calcio italiano è quello dei bilanci. Tante società vivono momenti di costante affanno e sono sempre alla ricerca di nuove forme per aumentare i ricavi. Analizziamo la situazione: per alcuni club del nostro Paese la voce “Costo per il personale tesserato” (in parole povere gli stipendi) va a intaccare in media il 70% dei ricavi. Percentuale che quasi annulla le entrate.

«Diciamo che nel conto profitti e perdite di un bilancio di un club di serie A i problemi sono per il 70% nei costi e il 30 % nei ricavi», dice Ernesto Paolillo ex amministratore delegato e direttore generale dell’Inter dal 2006 al 2012 ed ora vicepresidente della Banca Akros.

«I primi sono troppo alti, mentre per i ricavi ci sono delle possibili notevoli migliorie, ma per buona parte sono dovute a una gestione non appropriata delle società causate da un male endemico italiano che non permette di sviluppare nuovi ricavi, come per esempio con la costruzione di nuovi stadi. In alcuni casi, quindi, le realtà italiane sono vittime di un sistema farraginoso e pieno di ostacoli che non facilita il compito. Se vogliamo poi analizzare alla radice questa problematica, posso dire anche che c’è un problema a livello manageriale: abbiamo troppi manager improvvisati solo perché fanno parte del settore calcio e non ci sono professionisti preparati sotto il profilo economico – finanziario con specializzazioni nel campo del marketing e digital. Diventa tutto quindi tutto molto difficile e lento e non si sviluppano potenziali opportunità».

Oltre ad abbassare gli ingaggi che sarebbe la strada più semplice che cosa si potrebbe fare?

«Senza dubbio diversificare i ricavi. Io sono stato uno dei fautori del Fair Play Finanziario e quando iniziammo a scrivere le regole ci basammo proprio su un elenco di voci che dovevano procurare ulteriori profitti ai club. Questo purtroppo è servito solo all’estero, in Italia si è fatto troppo poco. Uno dei punti più importanti era senza dubbio quello sulla costruzione degli stadi che non veniva contata come costo, ma come investimento perché si sarebbe ripagato con gli introiti successivi. Questo si faceva proprio per incentivare la costruzione degli stadi e diversificare i ricavi. Purtroppo in Italia c’è un grosso problema che ha diversi fattori: il primo è che per costruire uno stadio che poi produca utili, bisogna affidarsi a chi ha una mentalità immobiliare- imprenditoriale. Non è un caso che molte società si facciano affiancare da fondi che sanno fare proprio questo tipo di lavoro.
Un altro grosso problema è la normativa italiana: lo stadio è considerato oggi semplicemente finalizzato alla partita, come sta accadendo a Milano. Si sta facendo un gran discutere su San Siro quando ormai, a mio avviso, non serve più a nulla e dovrebbe essere demolito. Dovremmo prendere esempio dagli inglesi che hanno buttato giù Wembley perché ormai inutilizzabile. Si parla solo di stadio sì o stadio no, senza però entrare nel merito di come l’impianto possa diventare un punto di aggregazione, di cultura e di socialità. Parlo di concerti, dei grandi tour europei che in Italia non vengono perché non ci sono impianti adatti e perché preparare un evento musicale a San Siro o all’Olimpico è molto difficile.
Un altro problema è a livello nazionale, perché lo Stato non finanzia i club per costruire gli stadi. La Turchia ha compreso questo discorso già 10 anni fa facendo dei prestiti a tasso convenzionato ai club, perché lì hanno colto l’importanza di costruire nuovi impianti, non solo per giocare le partite ma per creare socialità e cultura. Queste problematiche poi si rispecchiano inevitabilmente sullo spettacolo, sul prodotto che si vende. Giocare una partita in uno stadio nuovo, all’avanguardia, sarà sempre più appetibile di una che si gioca in un impianto vecchio e con infrastrutture desuete, che non forniscono i servizi necessari ad aumentare le emozioni che si vendono».

La Serie A è diventata molto meno appetibile rispetto a prima…

«Proprio questo ci dice molto delle cecità manageriale dei nostri club. Servirebbe creare un movimento in Lega o in Federazione che si renda conto che è necessario muoversi in maniera tale da trovare soluzioni e strade che possano aiutare tutti. Non bisogna lasciare alla singola società la lotta contro le istituzioni. Il problema sono le normative che devono cambiare, per poter permettere lo sviluppo dei club, ma anche dell’economia del Paese che ne trarrebbe sicuramente benefici».

Se domani dovesse tornare al comando di un club di Serie A, cosa farebbe per sistemare il bilancio?

«Per quanto riguarda i costi indubbiamente si devono fare tutte le battaglie, partendo dai comportamenti delle società, per quanto riguarda i rapporti con gli agenti – come la scelta di non prendere alcuni giocatori che sono rappresentati da procuratori che attuano determinate pratiche ricattatorie nei confronti dei club. Questa battaglia poi dovrà essere portata in FIFA per mettere delle regole precise sulla professionalità degli agenti. Le faccio un esempio di quanto successe nella Borsa Italiana quando si decise di eliminare la figura degli agenti che contrattavano le azioni alle grida. Facendo così il male fu estirpato. Il calcio avrebbe bisogno di uno shock di questo tipo.
Nuove norme che portino i club a trattare direttamente con i calciatori. Questo abbasserebbe i costi perché portare un giocatore a parametro zero, fa risparmiare il costo del cartellino ma gonfia inevitabilmente gli ingaggi e i costi per le commissioni, che sono arrivate a cifre folli. La figura dell’agente ormai è predominante dato che ce l’hanno l’allenatore, lo staff e ogni figura all’interno della squadra. Molte volte le società sono anche ostaggi di allenatori che fanno comprare solo alcuni giocatori perché della scuderia dello stesso procuratore. Così facendo si configurerebbe un conflitto d’interesse che danneggia la società.
Al momento, però, mi sembra che nessuno se ne stia occupando. Una volta risolto questo, farei in modo che il club fosse proprietario dell’impianto dove gioca e dove vende le emozioni della partita e tutto quello che gira intorno. Se si riuscisse già a fare questo i conti dei club potrebbero tornare a essere accettabili».

Lei è stato uno dei fautori della costruzione del Fair Play Finanziario. Che bilancio possiamo trarre?

«Sicuramente positivo e spiego anche il perché. Innanzitutto non esiste più il debito fra club: entro 6 mesi bisogna onorarlo. Questo ha portato alla drastica riduzione del fenomeno, anche verso il fisco e soprattutto i dipendenti. Il mancato rispetto di questa norma porta a una penalizzazione e questo ha fatto sì che il fallimento di un club abbia impedito anche il fallimento degli altri che vantano dei crediti. Un altro vantaggio è stato che il Fair Play Finanziario ha dato il via a una maggiore fantasia nel ricercare ricavi da parte delle società. Si sono sviluppati i canali social e digital creando nuove entrate nelle casse, che prima non venivano prese in considerazione.
Manca però ancora un grosso scatto, che secondo me è quello decisivo, e cioè attirare nuovi investitori. Chi entra in questo mondo trova club dissestati e con le regole attuali del Fair Play Finanziario, i nuovi investitori non possono fare nuovi grandi investimenti e non possono quindi valorizzare quello che hanno acquistato, rimanendo ingessati. Servirebbe una sanatoria che potesse aiutare i nuovi investitori. E’ necessario capire da parte delle istituzioni calcistiche che quando entra una nuova proprietà si è davanti a tutti gli aspetti ad una startup che ha deve investire per poter valorizzare quello che ha acquistato. Bisogna creare un mercato più liquido, più ampio per i club, che possa muoversi liberamente e possa permettere a chi investe di poter comprare o vendere con più facilità».                                      ©

Massimiliano
Guerra