La biodiversità è in serio pericolo e con essa le nostre economie. A lanciare l’allarme è l’ONU, nel suo recente rapporto sullo Stato della Finanza per la Natura, in cui si evidenzia la necessità di investimenti aggiuntivi per 4,1 trilioni di dollari.
«Il mondo deve quadruplicare i suoi investimenti annuali nella natura se le crisi del clima, della biodiversità e del degrado del suolo devono essere affrontate entro la metà del secolo», dice Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’Area per la conservazione delle specie e degli habitat e per la gestione sostenibile delle aree agricole e forestali presso l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA). Un fenomeno dalle implicazioni disastrose, anche e soprattutto sul piano economico. «La biodiversità e i servizi ecosistemici che da essa derivano sono il fondamento dell’economia e della ricchezza delle nazioni e sono vitali per molti settori produttivi, come l’agricoltura, la pesca, la selvicoltura, il turismo e altri per il nostro Paese».
In che modo il calo della biodiversità colpisce la nostra economia?
«Oltre che per il suo valore intrinseco, la biodiversità è importante perché è fonte per l’umanità di beni, risorse e servizi, che gli esperti chiamano “servizi ecosistemici”, indispensabili per la sua sopravvivenza e la sua prosperità. Secondo un rapporto del World Economic Forum del 2019, almeno metà del PIL mondiale dipende proprio da questi servizi. E per l’Italia questa percentuale è ben maggiore, come mostrato in un recente studio del Ministero della transizione ecologica. L’Intergovernmental Science-Policy Platform for Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) stima che su scala mondiale una persona su cinque dipende da piante, animali, alghe e funghi selvatici per cibo e reddito. L’uomo usa 50 mila specie selvatiche per soddisfare i propri bisogni quotidiani per cibo, energia, medicine, materiali da costruzione, riti religiosi. In particolare, la sopravvivenza del 70% delle popolazioni povere del pianeta è direttamente legata alla “generosità” della natura. In più, sono circa 60 mila le specie vegetali raccolte per la medicina tradizionale o moderna, mentre circa il 50% delle moderne medicine sono sviluppate da prodotti naturali che sono ora minacciati dalla perdita di biodiversità. Di fronte a queste cifre è evidente che il declino della biodiversità non può non avere un impatto sull’economia. Il degrado degli ecosistemi, principalmente attraverso la distruzione di habitat naturali, il prelievo eccessivo di risorse biologiche, l’inquinamento, i cambiamenti climatici e la diffusione di specie aliene invasive, sta già colpendo circa il 40% della popolazione mondiale, minacciando la salute umana, i mezzi di sussistenza e la sicurezza alimentare».
Qual è la condizione dell’Italia?
«L’Italia è tra i Paesi europei più ricchi di biodiversità in Europa in virtù di una favorevole posizione geografica e di una grande varietà geomorfologica, microclimatica e vegetazionale. Purtroppo, si tratta di un quadro a rischio, con almeno 161 specie in pericolo di estinzione (138 terrestri e 23 marine) e circa il 31% dei Vertebrati italiani minacciato, secondo le stime. I principali fattori di rischio sono la distruzione degli habitat e la loro frammentazione e degrado, l’invasione di specie aliene invasive, le attività agricole, la pesca eccessiva e non razionale, gli incendi, il bracconaggio, i cambiamenti climatici. Ma le nostre informazioni non sono del tutto accurate e questo costituisce un ulteriore fattore di debolezza. Per avere un quadro più completo dell’efficacia delle politiche e per misurare il successo o il fallimento degli interventi di governance sulla biodiversità occorre arricchire il quadro informativo di base. Per questo è necessario investire in programmi di ricerca a lungo termine per sviluppare baselines e piani di monitoraggio efficaci».
Come mai il problema è così scarsamente compreso?
«In generale c’è scarsa consapevolezza tra i cittadini e i decisori politici del ruolo che la biodiversità ha per il benessere dei cittadini e la prosperità delle comunità. I benefici associati alla biodiversità e ai servizi ecosistemici e i costi del loro degrado non sono sufficientemente integrati nel processo decisionale, a tutti i livelli. Purtroppo, questa consapevolezza manca anche tra gli imprenditori. Riconoscere l’enorme importanza della biodiversità e della natura per tutte le attività economiche fornisce una ragione politica ed economica in più per perseguire la conservazione della biodiversità e la protezione della natura e arrestare questo grave declino dell’integrità biologica del pianeta. Tuttavia, molte cose stanno cambiando. In agricoltura, per esempio, l’integrazione del valore della biodiversità di specie e di habitat nei processi produttivi e commerciali è largamente acquisita. In Italia abbiamo anche storie di successo di integrazione del valore della biodiversità nel settore della moda. Come per una nota impresa italiana, che utilizza gli scarti di lavorazione delle arance per produrre filati high tech e raffinatissimi per le sue creazioni».
Esistono misure precise dei servizi ecosistemici?
«L’ introduzione del concetto di “servizi ecosistemici” e la sua diffusione nell’ambito della teoria economica hanno stimolato diversi studiosi a identificare e sistematizzare questi servizi e ad assegnare loro un valore economico. È un elemento importante, perché consente a cittadini, imprenditori e politici di prendere decisioni che considerano tutti i costi e i benefici del caso. In secondo luogo, aiuta a giustificare e legittimare gli sforzi, anche economici, per la conservazione della biodiversità e dei servizi ecosistemici. Grazie a un fondamentale studio del 1997, rivisto nel 2014, possiamo stimare il valore dei servizi ecosistemici a circa 125 trilioni di dollari l’anno globalmente. Questa stima, seppur esposta a incertezza, è utile per fornire un ordine di grandezza globale».
Ma una valutazione di questo tipo non ha il suo rovescio?
«Certo, quest’attenzione al valore monetario dell’ecosistema non è scevra da rischi. Non ultimo quello di ridurre la questione a un gruppo di aspetti estremamente ristretto, quelli commerciali o di mercato. Viceversa, come sostiene un nuovo rapporto presentato nel 2022 dall’IPBES, l’organizzazione intergovernativa indipendente istituita per migliorare la comunicazione tra scienza e politica in materia di biodiversità e servizi ecosistemici, intitolato “Analisi dei diversi valori e delle valutazioni sulla natura”, i valori che possiamo attribuire alla natura e alla biodiversità sono molteplici, tanti quanti i possibili modi in cui interagiamo con esse. Purtroppo, molti dei metodi di valutazione e i tanti, estremamente variegati, valori della natura diversi da quelli strumentali, come quelli relazionali (ossia quelli che riguardano il tipo di relazione che si instaura con la natura e la biodiversità, che riflettono visioni del mondo, sistemi di pensiero e di conoscenze), non sono considerati e hanno un impatto pressoché nullo sulle decisioni politiche in generale e su quelle in materia di conservazione della natura in particolare. Ciò non solo è dovuto all’ignoranza circa le visioni del mondo alternative a quella dominante. Spesso è anche una scelta di campo. Il metodo di valutazione adottato non è mai neutrale nel rappresentare la realtà e i valori che la permeano: i metodi sono anch’essi delle istituzioni e come tali portatori di valori e significati. E i valori a cui si sceglie di dare rilevanza determinano quali voci saranno ascoltate, quali viceversa trascurate».
Cosa può fare la politica a tal proposito?
«La mancanza di norme di tutela o di strumenti per l’attuazione di quelle esistenti è una delle cause principali di declino della natura. È noto che la distruzione degli habitat, tra cui la deforestazione—il fattore principale dell’annientamento biologico del pianeta—è concentrata in regioni del mondo dove mancano forme di tutela e scarsa consapevolezza dell’importanza della biodiversità. Viceversa, nella maggior parte dei paesi che hanno introdotto politiche efficaci per la natura, i risultati sono soddisfacenti. Tuttavia, a mio parere, l’incremento delle norme e delle politiche ambientali da solo non è sufficiente per fermare e invertire l’annientamento biologico. È necessario un mix di miglioramenti e innovazioni sociali e tecnologiche, facilitato da efficaci misure politiche e dalla cooperazione su vasta scala, da locale a internazionale».
Qual è l’approccio più efficace al problema?
«Grazie alla scienza noi sappiamo quali sono i fattori diretti e indiretti che hanno portato alla perdita dell’integrità biologica del pianeta e quali sono le strade che si devono percorrere per arrestare e invertire questa tendenza. Dobbiamo quindi affrontare prioritariamente i fattori diretti del cambiamento (trasformazione dell’uso del territorio e del mare e la degradazione degli habitat, lo sfruttamento diretto, il cambiamento climatico, l’inquinamento, le specie invasive) e quindi il loro controllo attraverso la definizione di goal e target appropriati. Non dobbiamo trascurare però i fattori indiretti della crisi della natura, che sono quelli che strutturano le attività economiche e che generano i fattori diretti: i fattori demografici e socioculturali e i fattori economici e tecnologici. Ma anche il patrimonio culturale immateriale e le istituzioni formali e informali, come norme, valori, regole e sistemi di governance».
Quali sono i principali meccanismi di prevenzione che si possono mettere in funzione?
«Al di là di tutto, la conservazione su base territoriale rimane lo strumento politico, normativo e gestionale più diffuso ed efficace per arginare le minacce alla biodiversità, specialmente nelle aree di particolare importanza naturalistica. Finora su scala mondiale sono state istituite aree protette sul 17% delle terre emerse e sull’8% degli oceani. In Italia siamo quasi al 22% per le aree terrestri e al 10% per quelle marine. Ciononostante, recenti studi sull’entità delle aree marine terrestri necessarie per salvaguardare la biodiversità e per preservare i servizi ecosistemici mostrano la necessità di uno sforzo molto più ambizioso. A tal proposito, è necessario predisporre politiche e meccanismi per sostenere misure innovative indirizzate a rafforzare la protezione della biodiversità. Ad esempio, mentre gli approcci tradizionali come le aree protette sono stati la norma per garantire il possesso, sono necessarie altre forme di accordi come le aree protette community-based (ad esempio le aree marine gestite con il coinvolgimento delle comunità locali) per integrare le aree protette per la conservazione della biodiversità a lungo termine».
Ma, anche se prevenire è sempre meglio che curare, un intervento “ex post” è possibile?
«Una cura esiste e, nel gergo UE e ONU, si chiama “restoration”. Gli scienziati ritengono che per rispettare gli impegni su natura e clima il mondo dovrebbe ripristinare e restaurare entro il 2030 almeno un miliardo di ettari (le dimensioni della Cina) di aree urbane, suoli agricoli, praterie, savane, foreste degradate e un miliardo di ettari di aree marine. Il ripristino e il restauro dovrebbero essere visti come un investimento infrastrutturale per il benessere di un Paese. Decenni di esperienza e casi di studio mostrano come i programmi di ripristino e restauro potrebbero funzionare. Anche se la scienza del restauro degli ecosistemi è agli albori, l’agroforestazione e altre pratiche agricole sostenibili sono già ben comprese e possono essere estese su larga scala. Curiosamente, negli ultimi anni le maggiori storie di successo vengono dai Paesi del sud del mondo, dove sono stati realizzati progetti di complessità simile ai grandi progetti infrastrutturali».
Progetti di questo tipo sono già in corso anche in Italia ed Europa?
«Sì, due importanti programmi di ripristino sono già stati avviati in Italia grazie ai fondi PNRR. Il primo è il progetto di ripristino e restauro del fiume Po. Il secondo è la creazione di foreste urbane e peri-urbane nelle 14 città metropolitane. Due progetti molto innovativi che coniugano le esigenze dell’ambiente e degli ecosistemi con quello delle persone e delle attività economiche, attraverso la salvaguardia dei mezzi di sussistenza, dell’accesso alla natura e il miglioramento della salute. Un aiuto all’implementazione di altre iniziative simili potrebbe anche venire da un nuovo regolamento UE, dal titolo “Nature restoration”, attualmente in discussione. La bozza di regolamento, per la prima volta in 30 anni, introdurrà obiettivi giuridicamente vincolanti per tutti gli Stati membri per ripristinare la fauna selvatica su terra, fiumi e mari, insieme a un freno all’uso dei pesticidi chimici. Tra gli obiettivi figurano anche l’arresto e l’inversione del declino delle popolazioni di impollinatori e il ripristino del 20% delle terre e dei mari entro il 2030 e di tutti gli ecosistemi in fase di ripristino entro il 2050. E i fondi stanziati per la protezione e il ripristino degli ecosistemi ammonteranno a circa 100 miliardi di euro» ©
Marco Battistone