Dopo la stagione delle grandi M&A bancarie, la situazione inizia a stabilizzarsi. Negli ultimi anni, complice l’estrema polverizzazione dell’assetto precedente e la contrazione dei profitti, le spinte all’aggregazione sono state più forti che mai, con un calo del numero degli istituti di credito dagli oltre 900 del 1998 ai circa 400 del 2020 (BCE). Ma la musica sta cambiando, con i rialzi dei tassi che tendono ad allargare i margini di profitto. Come ha sostenuto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco all’ultimo congresso AssiomForex «la redditività è sostenuta dalla crescita del margine di interesse e da rettifiche di valore su prestiti ancora particolarmente contenute». In effetti, il tasso di deterioramento del credito registra per ora un aumento solo lieve, dal 2,1% di fine 2021 al 2,3% nel 2022. Anche per questo «è legittimo aspettarsi un numero non particolarmente alto di transazioni nel contesto attuale», afferma Alessandro Decio, Amministratore Delegato di Banco Desio. Certo, «alcune situazioni sono pending da tempo. Si parla ovviamente di Monte dei Paschi di Siena, ma anche di altre banche in difficoltà, che dovranno trovare sistemazione nel contesto attuale». Ma al netto di queste “pecore nere”, lo scenario base resta quello di un progressivo assestamento.
Perché attendersi un calo delle operazioni di M&A bancarie nel 2023?
«Le fusioni molto spesso avvengono in contesti di forte pressione sulla redditività, in cui le banche reagiscono cercando di recuperarla attraverso economie di scala. Il contesto di oggi, grazie ai rialzi dei tassi e dopo due anni complessivamente abbastanza buoni per il sistema bancario, consente di attendersi una redditività piuttosto sostenuta. Ormai si parla di un ROE degli istituti europei stabilizzato poco sotto il 10%, rispetto al 7 o al 6% di un paio di anni fa. Per questo le banche sono più sicure nell’affrontare il futuro anche sole. Questo fatta eccezione per le operazioni attese da tempo. Si parla ovviamente di Monte dei Paschi di Siena e delle altre banche in difficoltà, che dovranno trovare sistemazione nel contesto attuale».
È ragionevole attendersi un aumento negli acquisti di azioni proprie?
«Qualcosa si è già visto: le due principali banche italiane hanno avviato programmi di buyback anche piuttosto importanti negli ultimi due anni. Obiettivamente operazioni come queste potrebbero avere senso, in un contesto di maggiore redditività e con una valutazione bancaria che ha ancora spazio di miglioramento. Non credo però se ne vedranno ancora tantissimi. Quello che emerge sempre più chiaramente dal contesto è che la vigilanza europea, e quindi quella italiana, a fronte di una situazione patrimoniale più solida tra le banche, si stanno muovendo per garantire che buona parte di questo capitale rimanga all’interno per affrontare future situazioni di stress. È già stata paventata la possibilità di imporre restrizioni sui dividendi simili a quelle messe in atto durante il Covid-19. Nonostante l’ipotesi fosse un po’ azzardata, perché non ci si può aspettare di limitare il mercato in questo modo ogni due anni, rivela molto bene l’intento del supervisore. Lo vediamo, c’è un incremento di richieste di requisiti patrimoniali, tramite rivisitazione dei modelli interni (si veda il caso di Intesa) oppure degli SREP (supervisory review and evaluation process)».
Se il rialzo dei tassi aumenta la redditività, incrementa anche il rischio di credito. Assisteremo a spinte all’aggregazione dovute alla difficoltà di gestione dei crediti deteriorati, come è stato negli ultimi anni?
«Le previsioni che stiamo vedendo non portano in quella direzione. Oggi c’è una ventata di ottimismo che mi sembra ragionevole: si parla di soft landing piuttosto che di recessione. Lo scenario base prevede o che non ci sia recessione o che ne avvenga una molto breve e molto poco profonda, con una ripresa già nella seconda metà dell’anno. Le aspettative per l’Italia fanno vedere per il 2023 una crescita dei ricavi del sistema bancario superiore al 10% e un incremento del costo del rischio di una trentina di basis points. Insomma, l’incremento dei ricavi è ragionevolmente superiore all’aumento del costo del rischio. Però siamo in un contesto caratterizzato ancora da grandissima incertezza e questi numeri possono cambiare, anche in maniera significativa. E abbiamo imparato che i contesti macroeconomici e i cicli possono cambiare molto più di quel che si pensa».
Anche negli Stati Uniti si parla di recessione moderata, ma nel frattempo le grandi banche accantonano riserve ingenti per prepararsi a eventuali crisi nel credito. Vede un approccio simile in Italia?
«Mi sembra di sì. Più o meno tutte le banche italiane hanno approfittato del contesto pandemico per assumere un approccio cautelativo, costruendo overlay prudenziali nella struttura dei loro accantonamenti. In generale, si è ridotto in maniera significativa lo stock di portafoglio deteriorato. Dopodiché, da questo punto di vista, penso che il sistema bancario italiano sia in questo momento meno reattivo di quello americano rispetto a un rallentamento dell’economia. Teniamo conto che il mercato americano è caratterizzato da operazioni di finanziamento, lato imprese, un po’ più a leva e un po’ più strutturate. Quindi ci può stare una maggiore fragilità, anche perché gli stessi tassi d’interesse sono più alti di quelli europei».
Qual è il vostro approccio alla gestione degli NPL (Non Performing Loans)?
«Noi abbiamo la fortuna di aver sempre avuto un approccio ragionevolmente prudente, che ha fatto sì che non ci siamo mai trovati a gestire contesti di particolare crisi. Quest’anno abbiamo chiuso con un NPL ratio lordo del 3,2 % e un NPL ratio netto intorno all’1,7%. Si tratta di situazioni di grande comfort. Il nostro approccio consiste sostanzialmente nel mantenere internalizzate le competenze nella gestione di tutti i ticket medio-grandi, mentre invece diamo tipicamente in outsourcing i ticket piccoli, dai 25/50mila euro in giù. Detto questo, guardiamo sempre con attenzione a tutti gli strumenti esterni alternativi, come i fondi ad apporto, in cui ognuno contribuisce con le proprie posizioni, con operatori specializzati che raccolgono anche le posizioni di altre banche, avendo quindi una maggiore leva negoziale».
Mentre molti danno gli sportelli bancari per spacciati, con una serie di grandi chiusure, nell’ultimo anno voi ne avete acquisito due grandi tranche da Carige e BPER. Come mai questo approccio?
«Noi siamo convinti che il cliente abbia ancora una certa preferenza per il contatto umano, specie nei momenti critici. Lo abbiamo visto emergere con particolare chiarezza nel periodo del Covid-19. Quando si ha bisogno o bisogna fare scelte importanti, il contatto diretto è molto rilevante, per i privati tanto quanto per le imprese. Per questo, se innovare è sicuramente bene, è importante anche mettere il cliente nella posizione di poter scegliere se fare certe cose in digitale o fisicamente. Ed essendo una banca di prossimità, riteniamo che questo sia quello che sappiamo fare meglio».
Quindi c’è ancora futuro per le filiali locali?
«Certo. Se è vero che l’Italia era sovrabancarizzata e sovrasportellizzata, oggi non è più così vero come in passato: c’è stato un processo di compressione degli sportelli molto importante. Questa riduzione delle reti, unita alla standardizzazione dei modelli di servizio, fa sì che le banche più grandi non siano oggi sempre nelle condizioni di offrire ai clienti un contesto fisico a cui fare riferimento».
Come è possibile, specie per banche di medie dimensioni, mantenere una presenza tanto forte a livello territoriale stando al passo con le innovazioni radicali e di segno opposto che stanno attraversando il settore?
«Investire sul territorio può portare, spesso a fronte di un investimento contenuto, risultati economici positivi. Così facendo, si aumenta la base ricavi e la capacità di investimento in nuove soluzioni tecnologiche. In ogni caso, nella nostra ottica queste innovazioni rimangono sempre complementari e a supporto della rete fisica. Molti altri, invece, hanno visto la digitalizzazione come un’opportunità per portare i clienti fuori dalle filiali. Detto questo, non sto dicendo che il nostro modello vada trattato come quello universalmente migliore. Ma mi sembra ragionevole pensare che risponda bene all’esigenze di buona parte del mercato».
Favorire un approccio di prossimità può aiutare nel rapporto col cliente, consentendo di conoscerlo meglio, anche nella valutazione del credito?
«Sì. Il fatto di avere dei gestori che hanno una continuità di rapporto con le imprese aiuta moltissimo la comprensione e la solidità del rapporto. In particolare se si aggiunge una certa prevedibilità nel comportamento della banca. Ma questo non deve dare un’impressione sbagliata. Infatti, bisogna ricordare che molte banche di prossimità sono fallite proprio perché nelle considerazioni sulla valutazione del credito hanno fatto prevalere le motivazioni relazionali su quelle oggettive. Noi, da questo punto di vista, pur incentivando la prossimità, rimediamo concentrando tutte le decisioni creditizie. Crediamo che questo consenta di effettuare un’ottima selezione del rischio, con un buon grado di indipendenza nella valutazione. Allo stesso tempo, avere gestori che conoscono bene il cliente aiuta la selezione e velocizza i tempi di risposta».
Articolo tratto dal numero del 15 febbraio 2023 de il Bollettino. Abbonati!
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