Il calcio è lo sport più redditizio al mondo. Il fatturato del football ha raggiunto nel 2022 i 47 miliardi di dollari, il 28% del valore di tutte le attività sportive globali. Nonostante questo risultato, nelle stagioni 2019-2020 e 2020-2021, le squadre del continente europeo hanno fatto registrare un passivo di sette miliardi di dollari. La pandemia è stata un duro colpo, ma da sola non spiega un rosso così profondo. E in Italia le cose non vanno meglio. I debiti bancari dei club di Serie A superano il miliardo di euro, con Inter, Juventus e Roma che da sole sono responsabili di circa il 90% di questa cifra. Per tutti e tre questi club i bilanci riportano passivi per almeno 200 milioni, né le prospettive prevedono di ridurli. «Sono giocattoli», dice Andrea Goldstein, economista OCSE e autore del libro Il potere del pallone: economia e politica del calcio globale. «Non fa differenza se siano ricchi, come i club italiani, o ricchissimi come quelli inglesi».
Con il calcio si possono fare soldi?
«Con un buon progetto finanziario è possibile guadagnare qualcosa. Basta guardare l’esempio del Manchester United. La famiglia Glazer mise in piedi una tipica operazione di leveraged buyout, nella quale si usano i soldi della società acquisita per ripagare il debito, costruendo poi un business di successo. Ma come si vede nei casi dei club in cui investono i grandi capitali asiatici o mediorientali, ma anche della Juventus e tutte le squadre italiane, per arrivare perfino al Barcellona, si tratta di un’eccezione. I tipi di proprietà possono essere molto diversi, dalle società per azioni quotate a quelle private fino alle cooperative ad azionariato diffuso. La conclusione però è unanime: con il calcio non si fanno soldi».
Se il ritorno non è economico, quali sono gli obiettivi che si prefiggono gli imprenditori che investono in un club?
«C’è una lista nutrita di obiettivi di natura non strettamente economico-finanziaria che si possono raggiungere investendo in una squadra di calcio. Per “riciclare” i soldi, anche semplicemente cambiando loro bandiera. Come hanno fatto gli oligarchi russi o i grandi imprenditori cinesi che hanno portato i soldi all’estero. Sono soldi guadagnati in maniera non illegale, visto che non è certo denaro rubato o proveniente dal narcotraffico. Però provengono da fondi grigi, puliti ma non pulitissimi, una caratteristica che accomuna tutte le grandi fortune. Secondo tipo di obiettivo dell’investimento è dare un blasone nuovo alla propria nazione, come succede per i Paesi del Golfo. Vi è poi chi vuole acquistare la benevolenza delle autorità locali. Questo è successo anche in Italia in passato, nelle grandi città ma soprattutto in provincia, in particolar modo se l’imprenditore coinvolto opera in un segmento che spesso si intreccia con il pubblico, come il settore delle costruzioni. Infine, lo si fa per cercare un certo tipo di nobiltà che il solo denaro non può dare. Entrare nel mondo del calcio può essere infatti un metodo per accedere ad un ambiente altrimenti precluso, un fatto particolarmente vero per i nuovi ricchi. In questo caso le tribune dello stadio si trasformano, quando gioca la propria squadra, nel salotto più in voga della città».
C’è anche un altro modo di investire nel calcio, ed è il mondo dell’intrattenimento che gli gira attorno. Quanto pesa oggi questa dimensione?
«Il calcio si è trasformato in un intrattenimento con un aspetto sportivo, piuttosto che uno sport con intrattenimento in sottofondo. Si intreccia quindi con il settore entertainment. Questo un tempo vedeva una proliferazione di canali televisivi, ma ora si sta trasferendo sul digitale. È un mondo sempre più piramidale con pochi attori che producono gran parte degli introiti. Un’economia delle superstar che incrocia dinamiche proprie del calcio come sport e dinamiche proprie dell’intrattenimento. Grazie alla finanziarizzazione dei diritti di trasmissione si può segmentare il prodotto, e lì entra in gioco sia l’architettura organizzativa che quella finanziaria».
L’intervento di grandi capitali ha spinto l’UEFA ad applicare il Fair Play Finanziario. Questa misura ha funzionato o dovrà essere riformata?
«La normativa è in corso di revisione per avere dei parametri più chiari, trasparenti e aderenti alla realtà. Il segreto è nel dettaglio, quindi l’applicazione dovrà essere equa e severa. Da quando esiste questa regola non è sempre stato così. Si pensi ai casi del Manchester City, del Milan o del PSG. Qualche tipo di cavillo procedurale ha salvato queste squadre dalle conseguenze più severe che l’infrazione del regolamento comportava. È nell’interesse dei club italiani che queste regole siano applicate in maniera seria. Negli ultimi anni si è assistito a un allargamento del gap tra la Serie A e le principali concorrenti, soprattutto La Liga e Premier League, ma anche Bundesliga. Questo distacco è spiegato con le risorse limitate con cui le società italiane possono lavorare. Alla fine nel calcio vince chi ha più soldi, perché il talento va pagato ed è quello che fa vincere le partite».
I due più grandi fenomeni degli ultimi 20 anni, dentro e fuori dal campo, sono stati Cristiano Ronaldo e Lionel Messi: sarà possibile ripetere il loro successo economico e di costume?
«Sono figure che vengono costruite. I grandi giocatori possono essere grandi sul campo ma poi sono esseri umani, anche se a volte eccentrici ed estroversi. Cristiano Ronaldo e Messi sono persone normalissime. Se ci andassi a cena non avrebbero neanche granché da raccontare se non gli aneddoti della propria vita, seppur particolare. È la narrativa attorno a questi fenomeni che li ha resi tali anche fuori dal campo. Per questa ragione basterà trovare qualcun altro da mettere al centro. Sicuramente il talento più cristallino del calcio dei prossimi anni è Erling Haaland. Un giocatore che viene da un Paese di sportivi, ma improbabile per il calcio, come la Norvegia. Se continuerà sulla strada che ha percorso in questi anni sarà una delle star degli anni 20-30. L’altro è Kylian Mbappé, che viene da un Paese più grande come la Francia, e ha delle caratteristiche umane che lo rendono più interessante. Ma ciò che rende un calciatore una star anche fuori dal campo è un esercizio di costruzione attorno al talento. In questo ambito sono ovviamente gli attaccanti ad essere favoriti. Sono i volti delle squadre, quelli che decidono le partite e quelli il cui rendimento è più facilmente associabile ad un singolo numero, quello dei gol segnati. Più complesso per un portiere o un difensore intraprendere lo stesso percorso».
I grandi calciatori hanno spesso grandi procuratori: nel suo libro lei cita la rivalità tra Jorge Mendes e Mino Raiola, ad esempio. Qual è il loro ruolo nella carriera di un giocatore?
«Il procuratore è uno schermo che il giocatore può metter tra sé e il mondo circostante. Vale per i rapporti con la squadra, ma anche per tutto ciò che gira attorno ai calciatori. Come detto prima, si tratta di persone normali che si ritrovano da giovani nemmeno troppo smaliziati ad avere a disposizione un quantitativo di soldi smisurato, che può essere direttamente proporzionale alla quantità di errori che con essi si possono compiere. Ma proprio per questo il procuratore può diventare anche un capro espiatorio che si prende le critiche per tutti gli sbagli in cui un calciatore può incorrere, tra cui evadere le tasse».
Parliamo di Superlega: questo progetto, o altri simili, hanno un futuro?
«La Superlega è ineluttabile. Quale sarà l’entità che la organizzerà e come sarà strutturata esattamente non è chiaro, ma è inevitabile. Il calcio deve trovare un meccanismo per aumentare il numero di stakeholders che si sentono coinvolti e che hanno qualcosa da guadagnare. Una delle questioni che una struttura simile risolverebbe è quello di valorizzare gli investimenti che si fanno su asset fragili come i calciatori. Gli atleti sono soggetti a infortuni anche molto frequenti. Un giocatore si fa male più spesso di altri lavoratori, e diventa infruttuoso molto facilmente. Sono imprevisti che possono rovinare una stagione intera e pregiudicare ritorni economici oltre che di campo per il club che ha investito in essi. Per una grande squadra ha poco senso vedere le proprie risorse dilapidate in una partita con una piccola provinciale, un match che genera poco ritorno economico. All’opposto, invece, scontrarsi più spesso con grandi squadre razionalizza l’investimento, anche in caso di imprevisti. È indubbiamente un modello che può funzionare, ma che punta principalmente a un tifoso che vede il calcio da lontano e che non ha un legame con il territorio. Si tratta delle grandi classi medie asiatiche in ascesa. Centinaia di milioni di persone che non hanno un’affiliazione territoriale a una squadra, che non vanno allo stadio, ma che rappresentano un bacino di clienti senza paragoni in Europa. È il pubblico a cui oggi si rivolgono Champions League e Premier League. È una dialettica tipica della globalizzazione, la difesa del piccolo prodotto locale di fronte all’avanzare di una produzione di massa, più diffusa ma per forza di cose più appiattita».
In un calcio così globale, che fine fanno le squadre di provincia?
«Si deve trovare un modo di creare un mondo nel quale possano sopravvivere. Un esempio può essere il basket americano, dove convivono una realtà di massa, commerciale e di successo come l’NBA e un mondo locale, dove l’appartenenza è sentitissima come il basket universitario. Questo livello, nato prima della NBA e che esiste da 150 anni, è riuscito a sopravvivere fornendo un afflusso di grandi giocatori al campionato nazionale. Certo, oggi è difficile immaginare una Serie B o anche una Serie A ridotte a serbatoio di talenti per un campionato superiore, specialmente perché il basket universitario si lega alla giovane età dei giocatori». ©
Articolo tratto dal numero del 1 Aprile. Se vuoi leggere il giornale, abbonati!