lunedì, 7 Ottobre 2024

Private capital italiano? I giovani talenti alimentano lo sviluppo

Sommario

Il private capital italiano catalizza l’espansione delle imprese nostrane, aprendo nuovi orizzonti di sviluppo. Nel 2022 il settore ha investito 23,7 miliardi di euro in 848 operazioni, un aumento del 61% rispetto al 2021. Nel corso dell’anno hanno raccolto 5,9 miliardi di euro, con un aumento del 3%.

«Nonostante questi dati positivi, il settore risulta ancora di dimensioni ridotte rispetto ad altri Paesi europei comparabili», dice Alessia Muzio, Responsabile ufficio studi di AIFI. Il mercato attuale presenta nuove sfide per le imprese nazionali a causa dell’aumento dei tassi di interesse, dell’inflazione e delle tensioni geopolitiche. In periodi di grande incertezza le aziende devono avere una struttura finanziaria solida per affrontare i cambiamenti. Questo potrebbe portare a una forte richiesta di prestiti, soprattutto per finanziamenti a medio-lungo termine destinati a progetti di crescita. In una situazione del genere private equity e private debt possono diventare una risorsa fondamentale.

«Se si guarda al 2021, al netto delle infrastrutture, il mercato francese ha raccolto 6 volte le risorse degli operatori italiani, investendo volumi pari a circa 4 volte. La Germania ha raccolto un ammontare leggermente superiore delle nostre risorse, per un valore degli investimenti pari al doppio di quello italiano. Senza citare l’esperienza anglosassone che mostra numeri ancora più rilevanti. Anche il mercato del private debt, che in Italia è attivo da circa 10 anni, è cresciuto nel tempo, raggiungendo nel 2021 i 2 miliardi di euro investiti, ma rimane una grande distanza ad esempio con la Francia, che nello stesso periodo ha attratto quasi 15 miliardi. È fondamentale, quindi, alla luce del supporto che il private capital può fornire alle imprese italiane, continuare a sostenere e far crescere questi mercati, consentendo loro di raggiungere dimensioni simili agli altri Paesi europei».

Quale impatto hanno i giovani in questo settore e come si potrebbero rendere più partecipi?

«Negli ultimi anni il sistema finanziario, e al suo interno il mercato del private capital, è cambiato profondamente, anche alla luce del mutato scenario economico internazionale. L’offerta si è ampliata per far fronte alle diverse esigenze delle imprese e tematiche quali la transizione ecologica e digitale sono diventate fondamentali. In questo scenario i giovani non possono che rappresentare una risorsa fondamentale per supportare il cambiamento.

Per questo motivo, AIFI ha lanciato ormai da alcuni anni l’iniziativa AIFI Young, un gruppo di giovani (under 35), analisti e manager che lavorano nelle strutture associate ad AIFI e che sono attivi nel mondo del private capital. Il gruppo ha l’intento di creare collaborazioni che favoriscano la crescita professionale dei giovani attraverso attività legate al mondo del private capital e promosse da AIFI, ma anche tramite attività trasversali con altre realtà, accompagnate da momenti di networking e socialità.

Un altro aspetto da sottolineare è quello del ruolo delle donne, ancora troppo poche in questo settore, soprattutto con riferimento ai team di investimento e ai ruoli apicali, nonostante vi sia stata una crescita delle assunzioni negli ultimi anni. È necessario lavorare per rendere maggiormente appetibile il settore fin dai primi step di formazione. Sicuramente una spinta positiva arriverà dalla crescente importanza delle tematiche ESG, all’interno delle quali la componente sociale ricopre un ruolo fondamentale, anche agli occhi degli investitori».

Quali sono i settori dell’economia italiana che attualmente offrono le migliori opportunità di investimento per il private capital?

«Se guardiamo alla distribuzione degli investimenti per settore di attività, notiamo innanzitutto una grande eterogeneità, con settori sia innovativi, sia tradizionali. Negli ultimi anni al primo posto per numero di investimenti troviamo il comparto dell’ICT (Information and Communication Tecnologyes), dove si concentrano molte operazioni di venture capital, ma anche alcuni investimenti in imprese più mature.

Altri settori fondamentali…

sono quelli dei beni e servizi industriali e del medicale, dove il nostro Pease presenta eccellenze a livello internazionale, e i comparti tipici del Made in Italy, quali l’alimentare e la moda, che da sempre attraggono l’attenzione anche degli operatori internazionali. In generale, alcuni settori dell’economia italiana, quali l’ICT, il settore della moda, del design e del lusso, dove operano realtà di eccellenza, il comparto energetico, quello industriale e dei servizi sono caratterizzati da una grande frammentazione e conseguente esigenza delle imprese di crescere e aggregarsi: in tutti questi casi il private capital può ricoprire un ruolo fondamentale».

Come il private capital può dare impulso alla crescita economica e all’innovazione in Italia?

«Il supporto del private capital non si esaurisce nella fornitura di capitale, ma ulteriori vantaggi derivano dalla disponibilità di know how manageriale che l’investitore mette a disposizione dell’impresa per il raggiungimento dei suoi obiettivi di sviluppo. Come dimostrato da numerose ricerche, il private capital supporta i percorsi di crescita, interna o esterna, delle imprese, aiutandole anche nei processi di internazionalizzazione. Gli operatori aiutano le aziende a diventare più trasparenti e sostenibili, grazie a numerose iniziative poste in essere su queste tematiche».

Quali sono i vantaggi per le imprese?

«Le imprese partecipate dal private capital sono più innovative, in termini di deposito di brevetti, rispetto alla media nazionale, e questo vale non solo per le start up, ma anche per le imprese più mature che operano in mercati tradizionali, segno di come questo elemento sia ritenuto cruciale dagli operatori. Da ultimo non va dimenticato il ruolo nel ricambio generazionale e nella managerializzazione delle imprese. Tutto questo si traduce in una crescita superiore rispetto ad aziende comparabili che non hanno visto l’intervento del private capital, con conseguenti rilevanti benefici per l’economia reale».  

Quali sono i fattori determinanti per l’attrattività dell’Italia come meta di investimento per il private capital e quali iniziative possono essere adottate a livello nazionale ed internazionale per stimolare gli investimenti nel paese?

«L’Italia è un Paese caratterizzato da imprese eccellenti, che possono rappresentare un target ideale per il private capital. Oggi la maggior parte dell’ammontare investito nel segmento proviene da operatori internazionali, che guardano al nostro Paese con un’attenzione crescente. Dal lato degli operatori italiani, va invece sottolineato come siano ancora troppo ridotti i capitali raccolti dagli investitori istituzionali domestici, quali fondi pensione, assicurazioni e anche dal mondo privato. Per questo motivo si auspica un’azione sistemica per aiutare lo sviluppo dei fondi italiani per numero e dimensione, permettendo la nascita di nuovi soggetti ed il consolidamento di quelli esistenti, per permettere loro di diventare competitivi anche a livello internazionale. Serve poi ripopolare il segmento del mid market, con soggetti dedicati, che possano investire anche in quote di minoranza, e nell’attività di turnaround, segmenti ancora troppo poco coperti».

Quali sono le prospettive future per il mercato del private capital in Italia, considerando le sfide economiche e politiche nazionali?

«Sicuramente lo scenario in cui si sta muovendo il mercato del private capital è particolarmente complesso. Spesso si sottolineano le problematiche legate all’incremento dei tassi di interesse, ma questo fenomeno si è già verificato in passato, con un impatto limitato sul mercato del private capital, da sempre in Italia caratterizzato da un uso limitato della leva finanziaria, anche in coerenza con le dimensioni delle imprese. Oltre ai tassi ci sono indubbiamente molte altre problematiche che preoccupano le imprese: proprio in questo contesto il settore può rappresentare un elemento cruciale, fornendo capitale e competenze per affrontare il cambiamento».

Nel dettaglio…

«Le principali problematiche riscontrate dagli operatori rimangono fundraising e disinvestimento: il 2023 probabilmente sarà un anno in cui gli operatori si concentreranno prevalentemente sulle società in portafoglio, ma il private equity ha un’ottica di medio lungo periodo, quindi, bisogna guardare ad un orizzonte più lungo e non al singolo anno. Fondamentale in questo contesto è la capacità che possono e devono avere gli operatori di guidare il cambiamento». ©

Articolo tratto dal numero del 1° aprile 2023 de il Bollettino. Abbonati!