La corsa allo Spazio è sempre più agguerrita, ma a guadagnarci sono sempre pochi. La sonda inviata sulla Luna e la missione di studio del Sole avvicinano l’India all’obiettivo di diventare una superpotenza spaziale. I recenti successi permetteranno di accelerare lo sviluppo economico del Paese e aumentarne il peso geopolitico. La fetta maggiore della Nuova Economia Spaziale, però, non è in mano agli Stati, ma a grandi fondi che finanziano aziende private. Siamo entrati nell’era del capitalismo stellare.
«È una forma di capitalismo che guarda alla Terra ma si sposta nello Spazio, che diventa un terreno, un dominio da monopolizzare per collocare gli assetti spaziali di loro proprietà. Purtroppo oggi non c’è una normativa che regoli questa monopolizzazione di fatto, e questa è una mancanza normativa giuridica internazionale che si sta facendo sentire», dice Marcello Spagnulo, Manager presso aziende private e agenzie spaziali e autore del libro “Capitalismo Stellare. Come la nuova corsa allo spazio cambia la Terra”.
Cosa vuol dire esattamente “capitalismo stellare”?
«Il termine che ho ideato rimanda al fatto che gli imprenditori privati stanno diventando sempre più gli attori predominanti della nuova corsa allo Spazio. Questi realizzano astronavi e razzi vettori presso le proprie aziende, poi si lanciano nello Spazio per sviluppare un’economia utile al loro business terrestre. Sono imprenditori che dispongono di capitali propri, di Borsa o provenienti da fondi speculativi, per finanziare le loro attività. Il più famoso è Elon Musk (fondatore di Tesla e SpaceX, ndr), ma ci sono anche Jeff Bezos (Amazon e Blue Origin), Peter Thiel (Palantir), Richard Branson (Virgin) etc. Pensiamo ad esempio ad Amazon, leader della logistica globale, o a Musk che vuole connettere con i suoi satelliti Starlink tutte le automobili elettriche di Tesla nel mondo».
Quali sono i rischi legati allo sfruttamento dello Spazio?
«Dovrebbe essere considerato un patrimonio di tutti. Si tratta di un concetto che può apparire utopistico ma, alla luce di quello che sta avvenendo, diventa una necessità piuttosto impellente. Un ideale ben diverso rispetto a quello di uno Spazio accessibile a tutti liberamete, perché per accedere alle risorse spaziali ci vogliono sforzi industriali, capitale umano e grandi disponibilità economiche. La conseguenza è che solo un pugno di Nazioni, meno di 10, sono in grado di accedervi. Questo comporta il rischio di privatizzazione, nel senso di monopolio all’accesso, da parte sia di Stati sia di imprenditori privati».
Chi se ne dovrebbe occupare?
«Organismi come le Nazioni Unite, che però risentono di una fragilità dovuta alle contrapposizioni tra i blocchi geopolitici globali. Quindi possono emettere delle raccomandazioni, ma nulla più. Purtroppo oggi non si vedono organizzazioni che se ne facciano carico, anche se cominciano a esserci dei segnali di allarme. Penso alla Commissione Europea o allo stesso forum del G7 che, riunitosi di recente a Hiroshima in Giappone, ha preso in considerazione per la prima volta anche il settore spaziale come uno dei temi importanti per le discussioni politiche di alto livello, in merito alla necessità di bandire i test missilistici antisatellite».
Chi è più avanti nella corsa allo Spazio?
«Stati Uniti, Cina e Russia, le uniche tre Nazioni che hanno flotte di razzi vettori e di astronavi in grado di lanciare i propri astronauti a bordo di stazioni spaziali, che poi sono due, quella internazionale, a guida americana e russa (ISS), e quella cinese (Tiangong space station). Queste sono le superpotenze spaziali, tra le quali gli Stati Uniti sono leader, sia come impegno sia soprattutto come tipologia e quantità di assetti spaziali».
I progressi spaziali delle superpotenze sollevano problemi riguardo alla sicurezza e privacy delle persone?
«Non legherei le problematiche di privacy e di sicurezza unicamente ai progressi di Russia e Cina, amplierei lo spettro dei rischi. Se consideriamo che Iran e Corea del nord da anni sono impegnate in sviluppi missilistici spaziali che vanno in parallelo alla ricerca nucleare, anche questo andrebbe visto come un potenziale rischio per la sicurezza globale. Di fatto l’attività spaziale nordcoreana e quella cinese hanno come conseguenza una corsa al riarmo del Giappone e una crescente capacità spaziale della Corea del Sud, che proprio di recente è riuscita a lanciare un proprio satellite con un vettore prodotto da loro. In verità, dunque, diciamo che è proprio la corsa tecnologica allo Spazio in senso lato che, in assenza di normative o di regole condivise, comporta rischi per la sicurezza. Non meno, tuttavia, di altri settori. Come quello della A.I. di cui oggi si fa un gran parlare».
Qual è il vero potenziale della Space Economy?
«È la domanda che ho cercato di affrontare nel mio ultimo libro, dopo aver iniziato nel precedente Geopolitica dell’esplorazione, spaziale. Pensare che la Space Economy sia semplicemente un moltiplicatore dell’economia è fuorviante. È un settore terrestre che si sviluppa usando risorse spaziali. Il tema principale è quali Nazioni e aziende possono accedervi. È chiaro che c’è un potenziale molto importante per quello che riguarda gli aspetti di comunicazione e di connessione globale del pianeta. Oggi avviene attraverso i sistemi cablati sottomarini o la telefonia mobile, ma prossimamente le reti satellitari saranno sempre più pervasive. C’è anche un altro aspetto, che riguarda lo sfruttamento delle risorse e delle materie prime. Ad esempio, l’uso dell’energia solare. È difficile però calcolare le conseguenze ambientali e sociali in questo campo, anche se possiamo immaginare che non saranno trascurabili. Basti pensare all’impatto ambientale di decine di migliaia di satelliti nell’orbita terrestre. Oggi quelli attivi sono più di 8000, fino a 5 anni fa erano 2000. Prima si lanciavano ogni anno circa 150 satelliti e oggi se ne lanciano più di 1500».
A che punto siamo in Italia nell’esplorazione dello Spazio e nella Space Economy?
«Abbiamo una lunga tradizione nel settore spaziale, che spesso dimentichiamo. Nel 1964, mentre era in corso la corsa alla Luna tra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’Italia è stata il terzo Paese a lanciare un satellite artificiale. Il razzo vettore era americano, ma il satellite era stato progettato e costruito all’Università di Roma. Abbiamo una forte tradizione che si è radicata nell’università e nell’industria e che fa sì che oggi il nostro Paese possieda capacità nella manifattura e nei servizi assolutamente all’avanguardia. Ovviamente siamo cresciuti principalmente in un ambito europeo, grazie alla collaborazione all’interno dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
Questo ha portato grandi vantaggi e qualche limite, nel senso che l’evoluzione industriale e tecnologica ha dovuto rientrare nelle esigenze dell’ESA, sempre alla ricerca di un giusto compromesso tra tutti gli Stati membri. L’Italia è seconda per manifattura in UE ed è uno dei pochi Stati al mondo con un’industria in grado di costruire satelliti e lanciatori. Abbiamo un presente di tutto rispetto e di fronte a noi si pone la sfida di adeguarci alla grande evoluzione della Space Economy. Questo si traduce nella continua ricerca di innovazione tecnologica, per posizionarci al livello del resto d’Europa e del mondo, mantenendo la base accademica e industriale che permette la crescita del Paese».
Quanto è grande l’influenza dei fondi speculativi sulla Space Economy?
«L’influenza dei fondi speculativi è intrinseca alle attività spaziali dei nuovi imprenditori. Questo perché essi dispongono di capitali sia propri sia dei fondi di investimento. Qualche mese fa la SpaceX di Elon Musk ha effettuato il primo volo di prova dell’astronave Starship, che decolla e ritorna sulla Terra spinta da 37 motori. La navicella rivoluzionerà il modo di andare nello Spazio, tanto che la NASA ha chiesto a Musk di svilupparne una per la Luna. Al di là di questo, il primo volo non è andato bene. Dopo aver raggiunto un’altezza considerevole, il mezzo è esploso. In seguito questo fallimento il miliardario ha dichiarato che avrebbero cominciato la costruzione di un secondo prototipo, apportando anche migliorie alla base di lancio e stanziando due miliardi di dollari. Una cifra che equivale alla metà del budget annuale dell’ESA.
In pratica, un imprenditore privato spende in pochi mesi per uno dei suoi progetti quasi quanto spende la UE in un anno. Soldi che non sono solo un patrimonio personale, ma provengono da fondi di investimento che gli danno credito e fiducia, anche se SpaceX non è quotata in Borsa. In questo senso dico che i fondi speculativi hanno un’influenza sulla Space Economy, perché stanno puntando su alcune Big Tech, sperando che monopolizzino lo spazio, come hanno fatto con il mondo digitale e quello della logistica, e portino ottime rendite di posizione».
L’India è stata la prima nazione a posizionare un veicolo spaziale vicino al polo sud della Luna, ora ha lanciato un satellite per lo studio del Sole. Quanto può e vuole spingersi oltre?
«Fin dagli anni ’70 l’India ha costruito una solidissima base industriale e di ricerca nel settore spaziale. All’inizio usando tecnologie russe, parallelamente ai test nucleari che le comportarono delle forti sanzioni da parte degli Stati Uniti. In quella fase iniziale, per l’India fu fondamentale il supporto tecnologico della ex Unione Sovietica, in chiave anti-cinese. Parallelamente, il Paese ha sviluppato in autonomia una tecnologia missilistica e un’industria per costruire satelliti, cosa che l’ha portata nei decenni successivi a dotarsi di assetti spaziali realizzati in casa.
Nei primi anni 2000 c’è stata un’evoluzione verso le missioni interplanetarie, collegata alla volontà di avere un maggiore peso geopolitico, scelta supportata da un forte stimolo di orgoglio razionale. Prima di raggiungere la Luna, New Delhi ha raggiunto Marte, la quarta Nazione a farlo dopo Stati Uniti, Russia e Europa. Adesso è di nuovo la quarta ad arrivare sul suolo lunare. Le sue missioni sono molto economiche, più piccole di quelle che realizzano la NASA, la Russia o la Cina. Sono però dei primi passi che mostrano un crescente interesse spaziale. Non a caso, il premier indiano ha già dichiarato che nel 2030 lanceranno astronauti in orbita. L’India punta a diventare una superpotenza spaziale e ciò le consentirà di accrescere il suo peso sul parterre geopolitico internazionale e di poter affermare di essere una potenza tecnologica, economica e politica in grado di contare sulla Terra perché in grado di arrivare nello Spazio». ©
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