lunedì, 29 Aprile 2024
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L’Italia ha 16 milioni di pensionati e 23 milioni di lavoratori. Con le agevolazioni contributive introdotte dalla nuova Legge di Bilancio si stima che il sistema previdenziale, gestito al 96% dall’INPS, avrà nel 2024 circa 15 miliardi in meno di euro di entrate, poiché verranno erogati meno contributi per i lavoratori. La spesa del Paese per sostenerlo, nel 2022, è stata pari a 247 miliardi e 589 milioni di euro. Con un aumento del 3,9% rispetto all’anno precedente e un’incidenza sul PIL del 12,97%.

Quante pensioni paghiamo in Italia?

Il rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, tra le prestazioni conta 4.100.000 trattamenti di natura assistenziale tra invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali e pensioni di guerra che coinvolgono 3.746.000 beneficiari. Inoltre gli errori del passato, quando tra il 1965 e il 1990 sono stati mandati in quiescenza (con pensioni che paghiamo ancora tutt’oggi) schiere di impiegati statali con soli 8 anni o al massimo 20 anni di contributi, pesano sulla tenuta del welfare. Buona parte della spesa assistenziale, secondo i dati emersi nel report redatto da Itinerari Previdenziali, graverebbe in maggior misura sui 5 milioni di contribuenti che dichiarano redditi oltre i 35.000 euro, mentre il 77,84% degli italiani che non supera il tetto dei 29mila euro di reddito dichiarato. È una piccola porzione di lavoratori a sostenere l’enorme bacino della previdenza sociale tricolore.

La spesa previdenziale italiana

In totale le entrate contributive del 2022 sono state circa 225 miliardi di euro. Non sono quindi bastate a coprire i 247 miliardi di uscite per la copertura dei trattamenti previdenziali e hanno portato a un saldo negativo di oltre 22 miliardi e mezzo di euro. «Il 40% della popolazione paga quasi il 100% di tutte le imposte, finanziando i servizi per sé e per il resto della cittadinanza. Se avessimo maggiori risorse potremmo aumentare gli importi delle pensioni, ma in queste condizioni l’unica soluzione sarebbe continuare ad aumentare il debito pubblico. Una scelta che non è sostenibile» afferma Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.

La Legge di Bilancio 2024 come è intervenuta sul sistema previdenziale?

«In Italia gli occupati dai 55 ai 64 anni sono il 55%, mentre la media europea si attesta a circa il 75%. Serve andare in questa direzione. Bisogna sempre tener presente che per salvaguardare il sistema dobbiamo portare il rapporto lavoratori attivi/pensionati che oggi è a 1,4 a 1,6. Quest’anno il Governo non si è comportato male per quanto riguarda Quota 103: 62 anni di età con 41 anni di contributi. Noi avevamo proposto 64 anni di età con 38 di contributi di cui non più di 3 anni figurativi. Anche se crediamo fermamente che Quota 103 vada eliminata, riteniamo però che il calcolo contributivo di tutti i trattamenti pensionistici sia una buona scelta. La Legge di Bilancio ha cominciato a fare qualcosa orientandosi verso la giusta direzione, ma siamo ancora molto lontani dagli obiettivi di sostenibilità finanziaria».

Le pensioni minime crede vadano riviste?

«Per le pensioni minime questo Governo, come i precedenti, le ha aumentate. Tuttavia è onesto evidenziare che su 16 milioni di pensionati, 4.500.000 sono totalmente o parzialmente assistiti. Ciò significa che in 67 anni di vita, non sono riusciti a versare neppure 15 anni di contributi, quindi non hanno pagato tasse, quindi sono stati a carico della società. Per premio, anche se non hanno mai contribuito ai costi della società, gli diamo quasi 600 euro al mese per garantirgli una vecchiaia dignitosa. A loro si sommano i cittadini con gravi problemi di salute: 2.100.000 invalidi civili, 600.000 invalidi del lavoro Inail e 1.100.000 invalidi Inps. Quindi circa 4 milioni di persone che percepiscono pensioni mensili di circa 300 euro, la maggior parte delle quali hanno l’indennità di accompagnamento, arrivando a quasi 800 euro al mese e godono di esenzioni fiscali, servizio sanitario gratuito e altre agevolazioni. Certo 800 euro al mese non sono molti, ma come facciamo ad aumentare questi importi se solo il 13,9% della popolazione sostiene il 62,5% di tutta l’Irpef e il 90% dell’Ires?».

Quanto pesa l’evasione fiscale sul sistema previdenziale?

«Vorremmo che ognuno avesse tutto ciò di cui necessita, ma non ci sono fondi sufficienti a causa dell’evasione fiscale di massa. Gli italiani si lamentano, ma sono in milioni ad affermare di guadagnare meno di 20.000 euro l’anno (in 30 milioni dichiarano zero euro al fisco). Eppure nel nostro Paese: si spendono in gioco d’azzardo quasi 150 miliardi di euro l’anno; abbiamo più telefoni che residenti, i cellulari sono pari al 130% della popolazione; deteniamo il record europeo del parco auto (su questo fronte ci supera solo il Lussemburgo), bici e moto; in più siamo al primo posto per possesso di prima e seconda casa. I conti non tornano. In Austria, Svizzera, Germania, quando una persona arriva a 35 anni di età e non ha mai presentato una dichiarazione dei redditi, viene chiamato dall’Agenzia delle Entrate per spiegare come si sostenta. Dovremmo partire da azioni di questo genere per aumentare il gettito fiscale».

Calo delle nascite e invecchiamento della popolazione sono una minaccia o un’opportunità?

«Tutte le volte che parliamo di demografia sembra che viviamo un mondo normale. Dove è sempre stato così e poi di punto in bianco sono iniziate a nascere meno persone. Non è così. Quello attuale è un momento straordinario della storia dell’umanità. Abbiamo impiegato circa 200.000 anni per arrivare nell’anno zero della nostra era a 200 milioni di abitanti sulla Terra. Fino al 1945 eravamo 2 miliardi e 100 milioni di persone sul pianeta, quindi con una crescita molto lineare nel tempo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si è verificata quella che viene definita “la grande accelerazione”: per la prima volta (e anche l’ultima perché non succederà più) la popolazione è esplosa con un tasso di natalità mai registrato. Contemporaneamente grazie alla tecnologia e alla medicina è cresciuta l’aspettativa di vita e negli ultimi 80/90 anni abbiamo avuto un dono di 21 anni di speranza di vita in più noi italiani. Inoltre la mortalità infantile, quella che uccideva i bambini prima che arrivassero al 5° anno di vita, è oggi praticamente azzerata. Nel 1900 invece su 700/800.000 nascite, colpiva il 35% dei bambini, mentre il 15% dei sopravvissuti diventati adolescenti non arrivava alla maggiore età. Questo ci ha portato in meno di un secolo a quadruplicarci: ora siamo 8 miliardi».

Il sovrappopolamento è quindi un problema?

«I demografi dicono che non è possibile uno sviluppo di questa portata. Hanno lanciato un allarme: non c’è acqua e cibo per tutti, la crescita demografica è stata abnorme ed è meglio che non si verifichi più. È un bene che ci sia stato questo rallentamento nelle nascite. I primi accenni si sono visti nel 1968 con i moti universitari di Parigi, i movimenti studenteschi italiani, le proteste giovanili negli Stati Uniti. Le donne hanno cominciato a chiedere gli stessi diritti degli uomini: autodeterminazione, lavoro, istruzione. È un passaggio epocale che ha portato al calo di natalità iniziato a cavallo del nuovo millennio. Basti pensare che abbiamo dovuto attendere il 1946 in Italia per vedere le donne alle urne. Non stiamo parlando di secoli fa».

Come affrontare il sovraffollamento e la transizione demografica?

«Il calo di natalità è generalizzato in tutto il mondo. In Africa, ad esempio in Kenia, Tanzania, Congo quando una ragazza rimane in tribù fa ancora 5 figli, ma se termina le scuole superiori al massimo ne fa 2 e le laureate si comportano come le europee: solo 1 figlio e dopo aver compiuto almeno 30 anni. Le Nazioni Unite tracciano un parallelismo tra calo delle nascite e crescita culturale, di opportunità, di consapevolezza tra le donne. Nel 1940 l’Italia era all’80% agricola e quindi le famiglie degli agricoltori, per avere delle braccia da lavorare i campi, dovevano fare 3/4/5 figli perché 2 morivano prima di aver compiuto 5 anni. Oggi la situazione è ben differente. Il Paese più popoloso del mondo, la Cina, l’anno scorso ha perso 800mila abitanti e quest’anno 2 milioni».

Cosa sta succedendo a livello demografico?

«Dopo questa grande accelerazione nella crescita della popolazione siamo attualmente passati alla decelerazione. Il rallentamento delle nascite ha modificato le stime sugli umani: nel 2019 se ne prevedevano 13/14 miliardi nel 2100; al momento si pensa potrà essere raggiunto il picco nel 2064 con circa 9,7 miliardi. Il numero di abitanti sulla Terra decrescerà gradualmente fino a tornare agli odierni 8 miliardi di abitanti nel 2100. Serve prendere atto dell’anomalia di quanto è successo: in un secolo siamo raddoppiati, passando da 30 a 60 milioni. Dobbiamo sfruttare la maggiore aspettativa di vita (86/87 anni) e prepararci. Se finora abbiamo pensato a una società giovane e in espansione, ora dobbiamo ragionare nell’ottica di una popolazione che invecchia e ha una struttura per età diversa da quella alla quale la storia ci ha abituati».

Se ci saranno meno giovani che lavorano chi pagherà le pensioni tra 30 anni?

«La popolazione invecchia e bisogna prepararsi a una fase naturale. Si sta ristabilendo un equilibrio naturale. Non è in corso un inverno demografico, parlare di denatalità come attentato all’italianità non ha senso perché siamo un mix genetico. Il problema l’abbiamo oggi con 38 milioni di italiani in età da lavoro e solo 23 milioni che hanno un impiego. Siamo all’ultimo posto dei Paesi OCSE e in Europa per tasso di occupazione, distanti 10 punti percentuali dalla media (leggi l’approfondimento di Analisi a p. 9) e addirittura 18 punti percentuali dai Paesi nostri competitor come la Germania, l’Olanda e la Danimarca. Risultiamo ultimi come produttività, primi per numero di Neet (3 milioni di giovani che non studiano e non lavorano), primi per debito pubblico, esportatori netti di mafia. L’Italia deve ristrutturarsi: spendere meno in assistenza e di più in politiche attive del lavoro; investire per aumentare la produttività; finanziare maggiormente la scuola, la tecnologia, la cultura. L’innovazione ci viene incontro. Un esempio. La telemedicina, poco sfruttata lungo l’intero Stivale, risolverebbe tante incombenze familiari nella cura delle persone anziane o disabili mettendole direttamente in contatto, 24 ore su 24, con specialisti e comunicando loro in tempo reale: battito cardiaco, pressione, percentuale di ossigeno, ecc. Se andiamo tutti in pensione a 62 anni ai giovani resterà poco. Se il Paese avesse davvero a cuore le nuove generazioni dovrebbe adoperarsi per ripianare i conti pubblici: il rapporto debito/PIL nel 1980 era sotto al 60%, oggi siamo al 142%. Questo ipoteca il futuro. È come andare al ristorante, mangiare fino a scoppiare infischiandosene dei prezzi, tanto pagherà quello che viene dopo».

Quali sarebbero le misure per salvare le pensioni future?

«Serve riorganizzare il welfare e andare in pensione all’età giusta, distribuendo le mansioni sul lavoro in base all’anzianità, facendo la formazione continua, organizzando l’invecchiamento attivo. Sono diverse le iniziative che potrebbero consentire di oltrepassare indenni la transizione demografica iniziata tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo e che finirà tra il 2065 e il 2070. Poi avremo una società diversa con meno anziani e più giovani, l’età media si riabbasserà. Ripartiremo con un nuovo ciclo, si spera più razionale di quello che stiamo vivendo e non avremo problemi né nel pagare le pensioni né nel sostenere la sanità pubblica. Bisogna però ridurre subito la spesa assistenziale a carico della fiscalità generale che oggi vale quanto la spesa netta per pensioni: circa 160 miliardi di euro. È insostenibile perché una grossa fetta di queste risorse è a debito. Il Patto di Stabilità nuovo che entrerà in vigore nel luglio 2024 è uno strumento ideale per migliorare spesa e debito».

L’età di pensionamento odierna crede sia adeguata?

«Dobbiamo arrivare ad un’età di pensionamento che sia coerente con l’aspettativa di vita: se viviamo fino a 87/88 anni non possiamo andare in pensione a 60 anni. Altrimenti i conti non tornano, anche perché in tutti gli altri Paesi industrializzati (Giappone, Corea, Singapore, Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Olanda, Danimarca) i lavoratori vanno a riposo tra i 65 e i 70 anni. Serve adeguarsi. I contratti di lavoro odierni sono ormai superati. Un esempio. Il poliziotto a 50 anni può stare ancora su strada, ma a 60 anni non può rincorrere il borseggiatore 20enne, deve stare in ufficio fare monitoraggio, intelligence e trasmette ai giovani colleghi la sue esperienza maturata sul campo. Vale per qualsiasi professione. Con i soldi che lo Stato italiano risparmia dall’assistenza passiva che ha generato il più basso tasso di occupazione dei Paesi OCSE, bisogna investire nel sapere, nelle materie Stem, pagare meglio i giovani laureati in queste materie. Un cambio di mentalità che se non avverrà creerà enormi disagi e disservizi».

Il benessere va contestualizzato, qual è la sua esperienza personale?

«Mio padre ha avuto 3 figli ed era un operaio. Per mantenerci faceva anche 2/3 lavori. Ho cominciato a lavorare a 14 anni perché la mia famiglia aveva bisogno. Sono comunque riuscito a studiare di sera lavorando di giorno e laurearmi in Economia. Ho insegnato e ho sono andato avanti nella carriera facendo sempre il doppio impiego. Non dimentichiamo che gli italiani fanno parte di quei 600/700 milioni di abitanti del mondo che hanno tutto (compresa la sanità gratuita), mentre 4 miliardi e mezzo di persone vivono con 2 dollari al giorno. Vorrei portare in India chi si lamenta per mostrargli cosa significhi davvero sopravvivere in miseria». © 

📸 Credits: Canva

Articolo tratto dal numero del 15 febbraio 2024 de il Bollettino. Abbonati!

Giornalista professionista appassionata di geopolitica. Per Il Bollettino mi occupo di economia e sviluppo sostenibile. Dal 2005 ho lavorato per radio, web tv, quotidiani, settimanali e testate on line. Dopo la laurea magistrale in Giornalismo e Cultura Editoriale, ho studiato arabo giornalistico in Marocco. Ho collaborato a realizzare in Saharawi il documentario La sabbia negli occhi e alla stesura della seconda edizione del Libro – inchiesta sulla Statale 106. Chi è Stato?