sabato, 27 Aprile 2024

Calcio e gender gap: solo 6 su 46 nuovi ds sono donne

Sommario
calcio donne

Il calcio femminile vive un grande momento anche se il gender gap resta un avversario duro da sconfiggere. «Il mondo del pallone è pieno di stereotipi», denuncia Manuela De Luca, Responsabile organizzativo della Napoli Giovanile Femminile. «Per una ragazza giocare a calcio ancora oggi è un gesto di coraggio». Dirigente di lungo corso, team manager, negli anni ha formato sul campo decine di adolescenti. Laureata in Scienze della Comunicazione con specialistica in Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica ha scritto il miglior elaborato del corso di formazione per direttore sportivo di Coverciano: Donne in campo: l’assist della Sociologia – Nuovi dati per la ricerca sociale del calcio femminile. L’evento formativo ha visto la partecipazione di volti noti nello sport tricolore: il Commissario tecnico della Nazionale italiana Luciano Spalletti; il Ds dell’Inter Piero Ausilio; il Capodelegazione azzurro ed ex numereo 1 della Juventus Gianluigi Buffon; il Campione del mondo del 1982 Daniele Emilio Massaro; il Team manager del Milan Alberto Marangon; il Direttore sportivo della Juventus Cristiano Giuntoli e il Direttore operativo del Palermo Francesco Barresi.

Calcio e donne ds

Tre le donne invitate tra i relatori: la Psicologa dello sport Elena Di Chiara, Francesca Sanzone Responsabile della Divisione Calcio Femminile della Federazione Italia Giuoco Calcio (FIGC) e l’avvocato Sara Agostini, esperta in Diritto sportivo. Su 46 allievi le donne erano 6, tra cui Marta Carissimi, ex atleta della Nazionale Italiana di Calcio e attuale Responsabile dell’area femminile del Genoa, ritenuta dalla commissione d’esame la migliore del corso. Sedute ai banchi anche Isabella Cardone, Responsabile del settore femminile della Ternana; Irene Villa, Dirigente nel settore giovanile dell’Atalanta che ha attraversato la storia degli ultimi 30 anni del calcio femminile italiano; Beatrice Riva Project manager calcio e la Calciatrice Andrea Scarpellini.

A che punto è il calcio femminile in Italia?

«Purtroppo gli è attribuito minor valore rispetto a quello maschile. L’obiettivo però è sempre lo stesso: fare gol. Le squadre sono composte da uguali regole e numero di giocatori. L’unica cosa che cambia è il sesso biologico degli atleti, uomini e donne. Nel nostro Paese calcio maschile e femminile sono concepiti in maniera differente. Si tratta di uno sport dove resistono con tenacia le dinamiche patriarcali. Di recente, si sono poste le basi per un clima di trasformazione, volto al riconoscimento di un’affermazione paritaria».

Ci spieghi meglio

«Da luglio 2022 le donne possono, infatti, accedere al professionismo come calciatrici. Si apre così uno spiraglio anche nel futuro delle altre discipline. Nell’industria del calcio la presenza femminile è completamente sbilanciata in qualsiasi ruolo: arbitro, dirigente, calciatrice, direttore, Presidente. Gli addetti ai lavori sanno quanto lavoro c’è ancora da fare per la parità di genere in questo mercato. Un comparto che riflette la situazione generale in Italia, dove sono scarse le opportunità occupazionali per le donne. Ho cercato le radici di questo fenomeno. L’intento è di far arrivare all’attenzione della FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio) un problema che è di natura strutturale».

Lo sport influisce sulla parità di genere?

«Un’attività popolare come il calcio, che è la più seguita nel nostro e in numerosi altri Paesi, ha una grande portata mediatica. Con la forza di mercato che possiede, abbandonando la pubblicità fine a se stessa, può comunicare messaggi importanti per equilibrare la visione del rapporto uomo-donna. Ha il potenziale per scardinare un sistema che non riguarda solo lo sport, ma l’intero mercato e coinvolge la quotidianità dei cittadini. In questa direzione potrebbe intervenire in maniera fattiva sulla violenza di genere, sia sul fronte della sensibilizzazione sia nel creare reti di relazioni che possano fungere da supporto. Tra le mie proposte c’è la possibilità di immaginare scuole di calcio per i pulcini con allenatori donna. Sono piccoli cambiamenti che attivano dinamiche sociali utili a formare gli adulti di domani su nuovi codici, su una comunicazione inclusiva tra allenatrice e bimbi che si approcciano al campo di gioco. Renderebbe naturale la presenza e la percezione delle donne all’interno del sistema calcio, specialmente nei settori giovanili. Assistiamo troppo spesso a scene oltremodo spiacevoli. Un esempio su tutti è il genitore di un giocatore durante un match di basket. Ha augurato all’arbitro di morire accoltellata come la studentessa veneta ventiduenne Giulia Cecchettin. Il papà della ragazza, insultata solo perché stava facendo il proprio dovere, è andato a denunciare e l’uomo ha ricevuto un Divieto di Accedere alle manifestazioni Sportive (DASPO) della durata di 5 anni. Oggi calciatori, dirigenti, Presidenti e direttori sono dei modelli da seguire per i ragazzi. Come si comportano, come si presentano, fa la differenza».

Calcio, donne e stereotipi: quali sono i più diffusi?

«L’unità del gruppo, l’attaccamento alla maglia, il fare squadra, lo spirito dello spogliatoio, non sono di esclusivo appannaggio maschile. Anche le ragazze vivono queste esperienze. Credo serva guardare il calcio in un’altra ottica. Per questo ho inteso analizzarne le dinamiche interne attraverso la sociologia, così da mostrare i benefici della creazione di un’identità condivisa. L’ambiente calcistico è ancora fortemente machista, non nelle sue manifestazioni, ma nel modo di ragionare. Una ragazzina che gioca a pallone sfida quello che è l’immaginario collettivo. Le si chiede di entrare in campo e di esprimere valori altamente mascolini: forza, aggressività, velocità, scontro fisico. Approcci che non rispecchiano il concetto stereotipato di grazia, eleganza e femminilità. Come se non esistessero altri modelli dove le donne possano sentirsi tali, anche nell’esercitare pratiche come il giocare a calcio. Alcuni sport sono ritenuti più adatti alle donne solo per un modo diffuso di ragionare, concezioni slegate dalle capacità effettive di svolgere una determinata attività fisica. Dovremmo distinguere il genere dal ruolo ricoperto nella società: calciatrice, direttore sportivo, segretario sportivo, allenatrice. Si dice che le donne non facciano squadra, non sappiano collaborare. Non è vero. Dipende da come noi le mettiamo nelle condizioni di farlo».

Praticare sport può prevenire la violenza di genere?

«Sentirsi parte di un gruppo può aiutare nelle situazioni in cui si è vittime di violenza. Lo sport e lo spogliatoio creano un cerchio di tutela, che aiuta la donna a denunciare. Praticare attività fisica permette di riappropriarsi del corpo e delle sue abilità. La consapevolezza di essere capaci di giocare a calcio, disciplina destinata generalmente ai maschietti, potenzia la crescita delle giovani atlete. Fare uno sport che era destinato solo ai loro compagni di classe rende le bimbe coscienti della parità tra i sessi. Siamo noi adulti che proiettiamo i giovani a conoscere le loro potenzialità. Tante ragazzine non hanno giocato e/o non giocano a pallone perché in famiglia, nel loro contesto sociale o gruppo di riferimento, non c’erano persone pronte a spronarle. Attraverso l’esercizio fisico, seguendo le proprie passioni la donna può riscoprire talenti lontani dalle mansioni che le sono per tradizione attribuite quali: l’assistenza, la cucina, l’igiene e la cura. Apprende di poter scendere in campo ed esprimersi, certo in maniera differente dall’uomo, ma con le stesse opportunità e regole. Il calcio è una sorta di famiglia. Un centro di socializzazione aggregata con le basi per creare un gruppo di persone legate un obiettivo. Il diventare squadra fa nascere una sorta di interdipendenza del destino: ciò che ci accade è collegato anche a quello che fanno i nostri compagni. Un ambiente come lo spogliatoio, il gruppo, lo sport di squadra, favoriscono legami in grado di salvare le vittime di abusi e violenze».

Ci racconti di lei…

«Mi occupo di settori giovanili. Lavoro molto con le ragazzine. Ho una formazione accademica da sociologa quindi guardo oltre le abilità tecniche. Osservo l’aspetto umano, le dinamiche di gruppo, la coesione della squadra nel perseguire la vittoria, il rapporto che si istaura tra le varie componenti del team. Sono sfaccettature significative che permettono alle giovani donne di sentirsi libere. Legami che consentono loro di esprimere gioie, disagi, ambizioni, passioni e orientamento sessuale. Formano una famiglia, laddove quella naturale potrebbe essere assente. L’approccio sociologico credo sia una skill utile ad ogni allenatore perché lavoriamo con delle persone. Compio 38 anni a giugno, appartengo a una generazione di donne, che (almeno nel mio caso) non ha giocato a pallone. Dai 10 ai 19 anni praticavo pallavolo, poi smisi per l’università. A 27 anni ho cominciato a fare calcio a 5. Poi mi sono iscritta ai campionati di FIGC e ho militato nella serie C. Ho avuto un infortunio importante e sono stata un anno ferma. Ringrazio il mio crociato anteriore sinistro perché ha segnato una rottura senza la quale non avrei trovato la forza e la motivazione per proseguire in questo cammino. Chi fa calcio sa bene che l’infortunio fa parte del gioco, scoraggia, ma fino a un certo punto, quando subentra l’impazienza di ripartire. Quello che capita in particolar modo è che le ragazze tendono più a farsi male alle ginocchia, per una questione di conformazione fisica. Quindi i lavori dei preparatori dei tecnici sono orientati nel cercare di scongiurare questo tipo di lesioni».

Come contribuisce lo sport al benessere nella società?

«Ogni sport, a prescindere, ha una funzione di Welfare. Basti pensare, banalmente, alla prevenzione per le patologie cardiovascolari e il conseguente risparmio per il Servizio Sanitario Nazionale. Quando con l’attività fisica creiamo benessere ne beneficia l’intera società, soprattutto con il calcio, che in Italia ha la capacità di unire in un’identità condivisa attraverso l’amore per la maglia. Il problema nel nostro Paese è che i ragazzini fanno poco sport, non ci sono abbastanza strutture per poter organizzare corsi e a scuola le ore di Educazione Fisica sono poche. Ci sono delle difficoltà oggettive, soprattutto economiche da parte delle famiglie nel supportare i figli che vogliono praticare qualsiasi disciplina. Oggi non ci sono le stesse possibilità per tutti. È innegabile».

Cosa caratterizza le ragazzine che giocano a calcio?

«Sono bambine speciali. Loro non lo sanno, ma sono spugne: imparano e vogliono imparare. La mia missione è quella di insegnargli a portare avanti contemporaneamente il calcio e la scuola perché studiare serve al loro futuro. È difficile e stancante perché è una disciplina con orari particolari: ci si allena nei pomeriggi, si trascorrono intere giornate sul campo, si deve partire per le convocazioni, ecc. Se c’è la volontà però si riesce a percorrere entrambe le carriere: sportiva e universitaria. Vediamo che qualcosa sta cambiando nella società. Prima le mamme non gradivano, oggi sono diventate le prime tifose. I papà non erano d’accordo e adesso accompagnano le bambine, aspettandole fino al termine degli allenamenti. L’appoggio della famiglia è ovvio che permette loro di dare il meglio, mentre dove c’è un po’ di reticenza le ragazzine tendono ad abbandonare. Chi lascia il calcio ha sempre una motivazione personale alle spalle, dal nostro canto dovremmo garantire l’esistenza di un numero sempre maggiore di squadre nelle quali le ragazzine possano tesserarsi e giocare».

Qual è la sua più grande ambizione?

«Sono pubblicista, ho lavorato diverso tempo per un’agenzia di comunicazione, ma voglio continuare a operare nel settore sportivo integrando il mio know-how da sociologa alla mia formazione professionale nel calcio. Il corso ha aperto orizzonti più ampi e dato la possibilità di conoscere dal vivo colleghi che non si incontrano nella quotidianità come il Commissario tecnico della Nazionale italiana di calcio Luciano Spalletti. Essendo napoletana, di nascita e di fede calcistica, porterò con me per sempre un simpatico ricordo di lui nel cuore. Un giorno alla fine della lezione mi sono avvicinata dicendogli la frase tipica che ha accompagnato tutta la stagione sportiva fino alla conquista dello scudetto del Napoli: “uomini forti, destini forti”. Lui si è emozionato, ha sorriso e abbiamo poi avuto modo di chiacchierare anche al di fuori dell’aula. In sede di esame me lo sono ritrovato a far la foto di rito con la mia tesi in mano: è stata una piacevole sorpresa. Per quanto mi riguarda sogno di vedere una squadra della mia città, con tutte ragazze cresciute nel nostro settore giovanile, portare a casa la vittoria di un campionato. Dando così vita a una nuova identità, con calciatrici simbolo positivo di appartenenza al territorio. Donne che raggiungono risultati con costanza, sacrifici e duro lavoro. Modelli da seguire per i loro coetanei». ©

📸 Credits: Canva

Articolo tratto dal numero del 1° marzo 2024 de il Bollettino. Abbonati!

Giornalista professionista appassionata di geopolitica. Per Il Bollettino mi occupo di economia e sviluppo sostenibile. Dal 2005 ho lavorato per radio, web tv, quotidiani, settimanali e testate on line. Dopo la laurea magistrale in Giornalismo e Cultura Editoriale, ho studiato arabo giornalistico in Marocco. Ho collaborato a realizzare in Saharawi il documentario La sabbia negli occhi e alla stesura della seconda edizione del Libro – inchiesta sulla Statale 106. Chi è Stato?