martedì, 21 Maggio 2024

La gestione del capitale umano per imprese sostenibili

Sommario

Anche lo stress ha un costo. Una somma che in Europa raggiunge 240 miliardi di euro all’anno, spesi soprattutto in termini di perdita di produttività (Fonte: Eu-Osha). Saper gestire le difficoltà evitando il burnout è dunque fondamentale per ottimizzare le risorse d’impresa. La chiave è proteggersi dagli imprevisti: le Startup lo sanno bene. «Non esistono precedenti su cui misurarsi, quindi il fallimento è dietro l’angolo e da mettere a budget», dice Alessandra Luksch, Direttore dell’Osservatorio Startup Thinking del Politecnico di Milano. Il 22% dei lavoratori a livello globale sperimenta sintomi di burnout. Un sondaggio condotto dal McKinsey Health Institute che ha coinvolto 30mila dipendenti da 30 Paesi distinti evidenzia le differenze sostanziali tra le diverse nazioni. In particolare, i tassi più alti si evidenziano in India (59%), mentre i più bassi in Camerun (9%). L’Italia ottiene una posizione che fa ben sperare, negli ultimi posti della classifica con il solo 16% dei sintomi di burnout. Eppure, la percentuale di esaurimento delle forze e la conseguente stanchezza fisica e mentale è alta (43%). A quanto pare, a risentirne sono soprattutto le nuove generazioni. Uno degli ostacoli alla crescita dell’impresa evidenziato dal 60% dei talent manager sono proprio le frequenti dimissioni dei giovani. Tra i 18 e i 24 anni si registrano i livelli più bassi in termini di salute a tutto tondo, sociale, fisica, spirituale e mentale.

Come affrontare il problema del capitale umano in un’impresa ad alto contenuto innovativo?

«Si parte dai fondatori: il founder di una Startup deve avere delle caratteristiche di un certo tipo. Deve essere una persona resiliente, capace di affrontare anche i fallimenti. D’altra parte, deve essere in grado di capire velocemente ciò che funziona e ciò che non funziona, al di là appunto dei suoi innamoramenti e convinzioni. C’è quindi bisogno che sappia leggere molto velocemente i segnali del Mercato. Detto questo, gli Startupper spesso sono imprenditori seriali. Chi fonda una Startup facilmente non si ferma alla prima esperienza, ma reitera fondando ulteriori iniziative imprenditoriali. In questa storia di imprenditorialità, ogni founder conta dei fallimenti e fa parte della natura del fenomeno».

Cosa possono offrire le Startup, da un punto di vista di occupazione?

«La ricerca condotta degli Osservatori Startup Hi-tech e Startup Thinking degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano fa emergere una situazione rassicurante. Dall’analisi di 913 Startup Hi-tech italiane che hanno ricevuto finanziamenti negli ultimi dieci anni, nel triennio 2020-2022 possiamo vedere che l’occupazione è cresciuta a tassi decisamente superiori rispetto alle altre realtà imprenditoriali. Parliamo di una crescita complessiva del 59% con una media nei due anni del 26,2% di crescita dei dipendenti. È un dato che, se confrontato con le grandi imprese, raggiunge il 4,3% (per le piccole imprese il 6%, per le medie 3,2%). Questi i valori in termini percentuali. Ovviamente, se si guarda ai numeri assoluti, la situazione è diversa, perché le grandi imprese giocano su scala diversa».

Come si ripartisce questa crescita all’interno del comparto?

«Esaminando la distribuzione dei posti di lavoro, si riscontra che l’80% del totale deriva da circa un quarto delle Startup, confermando il fenomeno della power law (c.d. principio di Pareto, ndr). Poche Startup di successo possono portare a rendimenti molto elevati per gli investitori, mentre la maggior parte delle altre imprese potrebbe non essere altrettanto redditizia. La popolazione nel nostro campione è passata dalle 9.640 unità registrate nel 2020 a oltre 15.300 nel 2022, una crescita certamente notevole. Queste Startup finanziate rappresentano sicuramente una categoria di imprese giovani e innovative, come sappiamo, ma anche capaci di generare una crescita nell’occupazione ben superiore rispetto alle imprese tradizionali».

Cosa emerge dalla ricerca?

«Il Nord Italia si conferma come la zona più popolata, in termini di numero di sedi legali nella penisola (53%). Le tre regioni con il maggior numero di Startup sono rispettivamente: Lombardia (42,79%), Lazio (11,18%) e Piemonte (8,41%)».

Come è spalmato il dato a seconda dei round?

«Il trend dei posti di lavoro generati conferma che i round Pre-seed e Seed sono principalmente dedicati allo sviluppo e alla validazione delle idee di business. D’altra parte, i round di Series A e Late stage, nonostante una distribuzione meno omogenea, supportano la crescita dimensionale delle Startup. Più nello specifico, le imprese appartenenti alla fascia Pre-seed creano in media 1,36 posti di lavoro all’anno, con una mediana di 0,5 posizioni create. Le Startup Late round, invece, creano in media 19 posti di lavoro all’anno, con una mediana di 10 posti di lavoro creati».

Quali criticità è possibile riscontrare nella formazione di una nuova impresa?

«Ci sono due passaggi critici per una Startup. Il primo è sicuramente il market fit, cioè comprendere la risposta migliore al bisogno di Mercato. Qui è necessario essere in grado di fare pivoting, un ciclo di sperimentazione, raccolta delle informazioni e revisione del modello di business per cercare di comprendere velocemente quale sia la migliore risposta al bisogno. È chiaro che essere veloci ed efficaci in questa fase riduce i tempi e le spese. Nei casi in cui il market fit non ci sia, capirlo il prima possibile in modo permette  di ridurre i costi».

E il secondo passaggio?

«Sono i finanziamenti, la raccolta di fondi. Sappiamo che molte Startup in Italia vivono di risorse proprie e si appoggiano ad amici e conoscenti, però nel processo tipico il funding rappresenta l’elemento che fa la differenza. Questo perché le Startup, almeno nella fase di market fit, non sono in grado di raccogliere dei fatturati. In tutto il loro primo periodo di sviluppo hanno bisogno di fondi esterni per stare in piedi. Quindi il ruolo dei finanziamenti è cruciale. Nei Paesi dove esistono dei circuiti e delle policy di finanziamento ricche e strutturate, sappiamo che le Startup hanno vita più facile. In Italia, invece, siamo abbastanza indietro sia rispetto alle strutture sia rispetto ai numeri in gioco nel mondo dei finanziamenti. Un’ultima criticità è che spesso il founder della Startup rischia di essere troppo innamorato della sua idea e di non capire che magari essa va cambiata per rispondere al Mercato. Questo è un aspetto più emotivo, meno strutturale, da parte dei founder».

La presenza sempre più permeante della tecnologia può portare cambiamenti alla struttura del capitale umano?

«Tipicamente le Startup, almeno nella fase iniziale, non sono capital intensive. Le realtà Hi-tech che noi studiamo sono basate sulla tecnologia e sul digitale; quindi, cercano effettivamente di giocare su questo fattore. In realtà, l’automazione è quasi sempre un alleato, non potendo contare su eserciti di persone che andrebbero pagate. Le Startup nel complesso hanno una forte componente tecnologica».

I giovani sono portati alla creazione di nuove realtà imprenditoriali oppure si rifugiano all’estero non trovando in Italia terreno fertile?

«Sono vere entrambe le cose. Siamo abituati ad associare la Startup al giovane. In realtà, in Italia non è così. L’età media del founder italiano è intorno ai quarant’anni. Nel nostro Paese è più difficile avviare iniziative imprenditoriali, a maggior ragione Startup, proprio perché non abbiamo un sistema di incentivi e di supporto particolarmente significativo. Siamo anche un posto dove gli investimenti si misurano col contagocce. Succede che i nostri ragazzi vadano all’estero, dove trovano condizioni decisamente più favorevoli. Il sistema di finanziamenti alle Startup francese, per esempio, è di tutt’altro spessore, indicativamente nove volte quello italiano. C’è veramente un’accoglienza molto diversa rispetto all’Italia. Tuttavia, qui l’opportunità di sviluppare Startup consente di trattenere i cervelli in fuga e in qualche caso anche di farli tornare. Questo è il caso dell’italiana Newcleo, ad esempio, che sta cercando di far rientrare in Italia le proprie attività e i propri cervelli. Le Startup non solo creano occupazione, ma la creano anche di un certo pregio, trattenendo ragazzi che cercherebbero altrove opportunità».

Attirare giovani talenti è compito del sistema Paese?

«Nel nostro non c’è tanta attenzione. In Francia, Inghilterra ma anche Spagna e Stati Uniti sì, perché si è ben compreso il ruolo che possono avere per le economie mature. Rappresentano un motore di crescita e di occupazione. In Italia, questa cultura ancora non si è completamente sviluppata e quindi noi restiamo indietro».

Quali sono i modi per svilupparla?

«Bisognerebbe mettere in campo risorse economiche per favorire lo sviluppo di una leva, anche nei finanziamenti. La mano pubblica potrebbe iniettare fondi, e in parte già lo fa attraverso Cassa Depositi e Prestiti, il nostro volano. L’obiettivo è creare fiducia e appunto far crescere questi investimenti attraverso delle leve finanziarie. Questo è di fatto il primo fenomeno. Poi ci possono essere azioni legate più a sgravi fiscali o agli investimenti in Startup. Oppure favorire l’imprenditorialità anche da un punto di vista culturale, partendo proprio dalle scuole e dalle università, per spingere i giovani a tentare la loro strada imprenditoriale. Naturalmente, queste due azioni, quindi l’iniezione di risorse e la parte più culturale, devono muoversi insieme. Se si mettono i finanziamenti senza stimolare l’imprenditorialità e viceversa stimolare l’imprenditorialità senza risorse non porta a risultati». 

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📸 Credits: Canva.com

Articolo tratto dal numero del 1 maggio 2024 de il Bollettino. Abbonati!

Studentessa di Scienze della Comunicazione con una grande passione: il giornalismo. Determinata, ambiziosa, curiosa e precisa. Per Il Bollettino mi occupo di lifestyle in tutte le sue forme cercando di fornire una nuova prospettiva alla realtà che ci circonda.