La pallavolo raggiunge il 1 milione e 400mila praticanti nel nostro Paese. Soprattutto giovani e giovanissimi, che si avvicinano alla disciplina già durante il percorso scolastico e spesso si iscrivono in squadre dilettantistiche. Per la crescita del movimento, un forte impatto lo ha avuto la recente medaglia d’oro vinta alle ultime Olimpiadi di Parigi 2024 dalla Nazionale femminile, ma non solo. La Serie A femminile è infatti oggi uno dei campionati più seguiti in assoluto, sia dal vivo sia in televisione.
«A livello di club, direi che siamo messi molto bene. Ci troviamo in una fase di grande assestamento e di consolidamento, a un livello mai toccato negli anni precedenti. Lo dico innanzitutto dal punto di vista dei risultati sportivi: i nostri club nell’ultima stagione hanno vinto tutte e 3 le competizioni europee e hanno fornito tutte le atlete che hanno vinto l’oro olimpico a Parigi» dice Mauro Fabris, Presidente della Lega Pallavolo Serie A Femminile.
«Non è scontato, perché in passato la Nazionale italiana prendeva atlete da svariate parti del Mondo. Pensiamo per esempio alle Olimpiadi di Londra del 2012: metà delle atlete in squadra giocava all’estero, perché il campionato italiano non era appetibile. Non c’era né una situazione economica né sportiva tale da poter attirare le nostre campionesse».
Sembrano risultati di cui andare fieri
«Certo, questo significa che il nostro campionato, come già accertato, è il più bello del Mondo. Sia dal punto di vista della sua appetibilità sia da quello agonistico, economico-organizzativo e societario, ha la capacità di muoversi a livello internazionale. Abbiamo avuto ben due squadre che sono andate a giocare il Campionato del Mondo per club in Cina lo scorso dicembre, per fare un esempio. È l’ennesima prova che il movimento, a livello di squadre, sta benissimo. Siamo stabilmente ai vertici del ranking europeo e mondiale. Lo certifica il triplete di quest’anno, che ne ripete un altro di tre anni fa. E in generale, almeno una o due competizioni europee negli ultimi 10 anni la abbiamo sempre vinta».
Ci sono conseguenze anche a livello di pubblico?
«Questo ovviamente si accompagna a una crescita continua a livello di seguito, di fan, di essere protagonisti sui social. Siamo la prima lega per follower sui social dopo il calcio di Serie A e di Serie B, la prima lega indoor davanti al basket. Siamo arrivati ad oltre 645.000 seguaci, con una crescita continuativa del 10-15% annuo. La medaglia olimpica è sicuramente il frutto, come sottolineato sia dal coach Velasco sia dalla Federazione, di questo lavoro che siamo stati capaci di mettere in piedi a livello di club».
Quali fattori hanno portato alla crescita del movimento?
«La nostra Lega è cresciuta perché abbiamo messo in atto un’attività mirata. Da tempo utilizziamo, per esempio, advisor esterni per l’organizzazione degli eventi, per la gestione dei campionati intesi come sponsor e per la visibilità. Siamo stati i primi in questo settore: 15 anni fa non c’erano capacità economiche per sostenere un’attività del genere. Abbiamo costruito un percorso vincente che non è per nulla casuale e non si ferma certo all’oro olimpico. Tutto il contrario.
Per costruire una visibilità propria, ad esempio, la Lega scelse a suo tempo di adottare il Tappeto Rosa. Abbiamo intuito che fosse necessario dare una propria riconoscibilità a una pallavolo che a quel tempo era conosciuta in Italia solo per il maschile. Un altro esempio eloquente: abbiamo dato vita alla prima TV OTT (Over The Top, ndr), con la gestione degli abbonamenti in totale autonomia. Questo ha dato modo ai fan, già 10 anni fa, di poter seguire tutte le partite di Serie A1 e A2 in diretta, in un periodo storico in cui pochi pensavano ce ne fosse la possibilità».
Quali altri elementi hanno contribuito?
«Abbiamo avuto il coraggio di fare scelte con una finalità precisa: attrarre degli investitori che prima non venivano. Ma facciamo un passo indietro. Noi siamo partiti da un movimento che era tenuto in piedi da una sorta di mecenatismo, ossia da persone che – al di là dell’aspetto sportivo e del ritorno di immagine per la propria azienda – contribuivano economicamente e davano un finanziamento, tramite sponsorizzazioni o acquistando squadre. Un tipo di situazione stagnante, che non avrebbe mai consentito una crescita.
Tutto è cominciato a girare meglio quando abbiamo ripulito l’ambiente dalle posizioni di scarsa trasparenza che c’erano. Ho combattuto con quello che ho definito “doping amministrativo”, fatto di realtà che nascevano e morivano in poco tempo, che promettevano, prendevano impegni economici e poi non li rispettavano. Il tutto è stato accompagnato dall’affermazione di un campionato pulito, dove dal punto di vista sportivo non ci sono mai stati casi di doping, di violenza, di scommesse.
Un movimento capace di attrarre le famiglie, che piace molto ai più giovani. Basti pensare che i 4/5 dei nostri fan sono giovani di tutte le età e di ogni sesso. Sono attratti dalla spettacolarità, dalla nostra capacità di comunicare. A differenza per esempio del calcio, lo sport più seguito in assoluto in Italia ma che presenta diversi elementi non indicati per far avvicinare le persone, tra indagini, difficoltà d’accesso agli stadi e via dicendo».
A livello di sponsor, invece?
«Un altro elemento decisivo è stato l’avvicinamento di investitori nuovi e motivati. Oggi abbiamo main sponsor come Frecciarossa, Tigotà, Beretta. In passato abbiamo avuto Samsung e altri marchi di rilievo, che hanno creduto e credono nel movimento. È scattato da almeno un decennio il pensiero che investire nella pallavolo femminile è molto utile e redditizio. Proprio perché le famiglie, i giovani, il target più tecnologicamente aperto è interessato a questo sport. Un ultimo dato: abbiamo avuto una crescita del 40% degli abbonamenti nell’ultimo anno».
C’è un’attenzione anche nei confronti dei settori giovanili?
«È in atto un meccanismo di crescita dei vivai. Abbiamo portato avanti concetti innovativi, col Fantavolley, per esempio, che ha ottenuto numeri paurosi. Un altro elemento d’orgoglio è il nostro quarto tempo dopo la partita, dove le nostre campionesse si fermano in campo a fare due chiacchiere e qualche selfie con i fan, così da innescare la capacità di creare empatia ed entusiasmo. La nota dolente riguarda gli impianti, non sufficienti per poter accogliere tutte le richieste che abbiamo dalle giovani che vogliono avvicinarsi alla pallavolo. È un tema che riguarda in generale il nostro Paese, un limite importante».
Nonostante tutti questi passi avanti, ancora oggi la pallavolo femminile non è tutelata dal professionismo
«Sì, ma bisogna capire se in questo momento si tratti di un limite o meno. Riallacciandomi al discorso di prima, siamo passati dal mecenatismo a un investimento oculato e mirato da parte di molte realtà per avere un ritorno d’immagine. È un aspetto che ci consente di avere risorse importanti: i top team arrivano ad ottenere dai 5 ai 7 milioni di euro di investimento all’anno, e la maggior parte dei club sta in piedi con il 90-95% di contributo degli sponsor e grazie alle proprietà che mettono i soldi.
Questo perché la quota che tutt’ora deriva e ritorna al team in termini di incassi, diritti tv, utilizzo tecnico per le maglie e via dicendo non raggiunge il 5%. Ci sono realtà che vivono solo grazie agli sponsor. Conegliano, per esempio, che è campione del Mondo e ha oltre 200 sponsorizzazioni. Altre ne hanno pochissime, ma hanno una proprietà che mantiene in piedi i bilanci. Dal punto di vista economico, il passaggio al professionismo oggi comporterebbe degli oneri che non credo il movimento sarebbe in grado di sostenere.
Quando c’è stata la riforma del diritto sportivo, noi abbiamo chiesto nel dibattito di inserire una categoria intermedia tra il dilettantismo e il professionismo. Si sarebbe potuta chiamare semi-professionismo, una realtà con le giuste condizioni dal punto di vista pensionistico, della tutela sanitaria e sociale. Cose che la riforma non ha voluto considerare, una proposta pensata insieme alla lega maschile di pallavolo, al basket di serie B e al calcio minore. Da questo punto di vista, è stata un’occasione persa».
Parlando delle giocatrici e della loro tutela, quante sono le atlete che riescono a vivere solo di pallavolo a tempo pieno?
«Non ho il numero esatto, ma almeno più del 50%. Il tema non è solo questo, però, ci sono molte ragazze che giocano in A2 come in A1 curando al tempo stesso la loro crescita formativa. Tant’è che noi abbiamo un numero di laureate altissimo, perché loro praticano lo sport che amano e al tempo stesso crescono e si preparano a quella che sarà la loro vita dopo l’età in cui, come tutti gli atleti di alto livello, dovranno smettere. Chiaramente quelle che diventano campionesse vivono benissimo.
Ci sono retribuzioni medie interessanti e importanti, che a quell’età difficilmente si riuscirebbero ad avere con altre occupazioni – parlo di atlete della pallavolo che iniziano a giocare a 15-16 anni. Poi, quando si arriva dai 20 anni in su gli stipendi crescono, si parla di migliaia di euro. È un tipo di impegno che consente di avere un ritorno economico che le fa stare meglio di molte coetanee e che al tempo stesso garantisce una crescita educativa.
Poi ci sono casi come quello di Paola Egonu, che si avvicina a questa disciplina giocando al Cittadella perché il papà si era stancato di vederla a casa davanti alla TV e la obbligava a giocare. Una volta entrata in campo si è scoperto che aveva talento e oggi ha delle retribuzioni milionarie. Anche perché, oltre ai meriti sportivi, è stata ospite al Festival di Sanremo, fa da testimonial per importanti marchi di abbigliamento e via dicendo».
Ci sono iniziative a tutela delle atlete in campo, per esempio per la maternità?
«Noi avevamo proposto e abbiamo fatto una battaglia durissima sul fondo di maternità, che è stato istituito, ma oggi è finanziato con poche risorse. Stiamo continuando a chiedere che si aumentino questi fondi. In questo momento, le tutele sono su base volontaria da parte delle singole società in cui le ragazze giocano.
Tuttavia, va detto che, in generale, tutto questo non è troppo limitante. Basti pensare che quattro anni fa Conegliano ha vinto uno scudetto con 5 mamme in squadra. Diciamo anche che le atlete che scendono in campo sono molto giovani, e di solito scelte importanti come il mettere al Mondo un figlio si fanno più avanti, guardando ai dati sulla natalità nel nostro Paese. Di norma, le atlete giunte ai 30 anni sono già in uscita, un’età che oggi è considerata addirittura bassa per fare figli.
Oggettivamente non è mai stata fatta una rilevazione sul livello di soddisfazione delle ragazze che giocano a pallavolo in Serie A, ma prima o poi la farò e sono sicuro che sarebbe altissima. Questo perché fanno quello che amano di più, in un contesto che è sotto i riflettori del Paese. Lo vedo girando per i club che sono tutte ragazze molto motivate e contente, con aspirazioni e ambizioni legittime di crescita, per diventare la star del momento.
Non c’è nessun livello di insoddisfazione, in particolare dopo che ci siamo liberati del mecenatismo. Nessuno non viene pagato, mentre da più di un decennio non abbiamo club che si ritirano dal campionato perché falliscono. Una situazione che ci rende orgogliosi e fa capire lo stato di salute del movimento». ©
📸Credits: Canva
Articolo tratto dal numero dell’1 gennaio 2025 de il Bollettino. Abbonati!