Un colpo che guarda al futuro, sportivo ma soprattutto economico. La Roma ha ingaggiato José Mourinho per le prossime tre stagioni, garantendo all’allenatore portoghese uno stipendio di 7 milioni di euro netti all’anno più bonus. «È una grande operazione di marketing, il presidente Dan Friedkin pensa a lungo termine e vuole esportare il marchio del club all’estero, in particolare negli Stati Uniti», spiega l’analista finanziario Riccardo Paoncelli, CEO di I.M.A. Project Financing. Dopo l’annuncio il club giallorosso è volato a Piazza Affari con un rialzo del 26%.
Si aspettava il rally del titolo?
«Non mi ha sorpreso, anche perché è stato un comunicato eclatante e inaspettato. Poi qualche investitore ci ha guadagnato con le prese di profitto nei giorni successivi al boom».
Cosa può dare Mourinho all’As Roma?
«A livello economico l’allenatore portoghese è importante per il ritorno d’immagine all’estero, aspetto su cui i Friedkin puntano molto. I nuovi proprietari vogliono valorizzare il marchio, in particolare negli Stati Uniti, dove l’iconografia dell’Impero romano è ancora viva: per gli americani continua a essere un punto di riferimento, ne subiscono ancora il fascino. Può avere anche ricadute positive sul turismo della Capitale».
È una scelta condivisibile?
«Dan Friedkin ha fatto un ragionamento nel lungo periodo, pensando ai prossimi cinque anni. È entrato in corsa, ha fatto finire il campionato e ha capito due dettami fondamentali: la necessità di avere una grande società e un allenatore vincente. Poi sulle qualità da tecnico di Mourinho si può anche dibattere. In ogni caso il patrimonio di Friedkin non è in discussione, così come il suo approccio pragmatico al futuro».
Quali sono le differenze con James Pallotta?
«Pallotta è un uomo di finanza: è partito con l’idea di un grosso investimento immobiliare per fare profitti nel più breve tempo possibile e rendere felici i clienti dell’Hedge Fund Raptor. Friedkin è un imprenditore industriale e ragiona diversamente. Inoltre il suo predecessore mirava di più al mercato asiatico, mentre la strategia di concentrarsi sugli Stati Uniti mi sembra corretta».
Come si muoverà il club nei prossimi mesi?
«Credo che farà come l’Inter e cercherà di liberarsi degli ingaggi più pesanti, anche perché non sono quelli che ti garantiscono la Champions League. Farà un calciomercato piuttosto asfittico, basato soprattutto sui prestiti. Il vero problema delle società di calcio sono i bilanci, che non si reggono più in piedi».
L’ultimo dato, aggiornato al 31 marzo 2021, dice che la Roma ha un indebitamento finanziario netto pari a 265,5 milioni di euro.
«Non è preoccupante ed è comunque in linea con le altre squadre. L’attuale proprietà può garantire senza problemi quei soldi. E poi sono convinto che in estate, tra cessioni e scadenze di contratti, il monte ingaggi della Roma calerà di circa il 30%. Senza dimenticare che il bacino d’utenza tra città e Regione è comunque molto ampio».
Lo stadio di proprietà tornerà in auge?
«Non nell’immediato. Ora i Freedkin sono concentrati sulla costruzione di una società forte dal punto di vista manageriale e internazionale. Prendere Tiago Pinto come direttore sportivo e ora Mourinho in panchina è utile anche per allacciare rapporti con la scuderia portoghese che fa riferimento al super procuratore Jorge Mendes. La questione stadio può aspettare, anche perché dipenderà molto da chi sarà il prossimo sindaco di Roma. Penso che comunque cambierà la location e non si farà più a Tor di Valle».
Nei progetti futuri c’è anche il centro sportivo?
«Assolutamente, anche perché Trigoria è di proprietà di Unicredit e la Roma paga l’affitto per allenarsi lì. È un altro elemento che conta nel passivo. I soldi risparmiati con un training center di proprietà saranno poi reinvestiti».
Al club conviene ancora essere quotato a Piazza Affari?
«La Roma, così come Lazio e Juventus, ha un flottante ridicolo in Borsa. Sarebbe necessario almeno un 30 per cento di capitale sociale sul mercato azionario, che significherebbe maggioranza relativa. Un po’ come accade con Real Madrid e Barcellona in Spagna, con i soci che pagano una quota annua e possono condizionare le scelte o supportare la proprietà. E poi c’è un discorso di uniformità».
In che senso?
«Non è giusto che soltanto tre società su venti debbano avere i bilanci certificati perché lo chiede la Consob. Faccio un esempio per semplificare: se si compra un calciatore nonostante i conti non lo consentano e questo viene alla luce dopo alcuni anni, è chiaro che nel frattempo il regolare svolgimento del torneo sia stato già alterato. Non è più una competizione ad armi pari. In generale i club calcistici non c’entrano nulla con la Borsa».
Si aspettava che l’Opa di Friedkin fallisse e il 13,4% della Roma restasse sul mercato azionario?
«Sì, perché si tratta di pochi investitori. Vogliono vedere gli sviluppi del titolo e sono convinti che salirà ancora. Questo comporta manovre speculative assurde: basti pensare a quanto avrebbe potuto guadagnare un giornalista ben informato o magari un uomo all’interno della società se fosse venuto a conoscenza in anticipo dell’affare Mourinho».
Il delisting è solo rimandato?
«Prima o poi succederà. Ma credo che la prima a defilarsi sarà la Juventus, che è alla vigilia di una rivoluzione copernicana. Magari non subito, ma tra qualche mese prevedo possa salutare Piazza Affari. E le altre società la seguiranno a ruota».