giovedì, 28 Marzo 2024

Abbassare i costi di produzione con impianti più intensivi per aumentare la resa e valorizzarla con una rinnovata cultura dell’olio: è questa la ricetta per superare il paradosso dell’olivicoltura italiana. «C’è una strana contraddizione nel nostro sistema olivicolo: produciamo meno della metà dell’olio che consumiamo. Per vincere la concorrenza, l’Italia deve moltiplicare la propria capacità produttiva e ha spazio a sufficienza per poterlo fare. Così può conquistare nuovi mercati e importarvi una più matura idea di olio, quella di un alimento e non più solo di un condimento», spiega Dino Scanavino, presidente di CIA – Agricoltori Italiani. «L’olivicoltura italiana ha una strana anomalia: produciamo tra le due e le trecento mila tonnellate l’anno, ma ne consumiamo circa settecento mila, quindi la resa effettiva è un terzo del fabbisogno nazionale. Complessivamente, però, lavoriamo un milione e duecento mila tonnellate di olio, quindi abbiamo un comparto molto rilevante e piuttosto strutturato, ma con una produzione autoctona limitata, almeno rispetto alle necessità di consumo e a quelle industriali. Un altro aspetto da considerare è che, seppure l’olio italiano sia rinomato per la sua altissima qualità, abbiamo costi di produzione superiori alla media degli altri Paesi del bacino del Mediterraneo. Basta guardare alla Spagna, che ha un’ulivicoltura super-intensiva e completamente meccanizzata. Quella greca, invece, è molto simile alla nostra ma con costi più bassi e poi c’è il Nord Africa, con Tunisia e Marocco, che hanno oli di qualità a prezzi molto competitivi perché le spese di gestione e per la manodopera sono inferiori».

Che andamento ha avuto il mercato dell’olio nel periodo di pandemia?

«Nel settore ci sono alcune grandi multinazionali presenti in più mercati azionari europei e, a volte, mondiali. Tutti i comparti del Food hanno avuto una buona performance a livello borsistico, compreso quello dell’olio. La realtà olivicola e olearia italiana è molto frazionata, fatta anche di piccoli frantoi e cooperative che poi confluiscono in grandi, piccole e medie catene di distribuzione, in più l’ulivo è un albero piuttosto altalenante a livello produttivo, tanto che possiamo passare da due a trecento mila tonnellate all’anno con una certa elasticità. Tenendo conto di questi fattori, il segmento ha reagito abbastanza bene al periodo di pandemia in termini commerciali. Anche l’export sta crescendo, in particolare negli Stati Uniti e in molte aree dell’Asia: Cina e Giappone in primis».

E i prezzi?

«In quest’ultimo anno si sono mantenuti, all’ingrosso, a dei livelli accettabili: mediamente sui 4,70/5 euro al chilo a cisterna, che non è male per le regioni che producono grandi volumi. Penso alla Puglia e alla Calabria, alla Toscana, all’Umbria, alle Marche, ma anche a tutto il resto d’Italia: solo due regioni, il Piemonte e la Valle d’Aosta, hanno olivicolture molto più legate ai sistemi territoriali, e non alla resa, quindi con prezzi finali più elevati. Un fenomeno da tenere in considerazione è quello delle multinazionali presenti in Italia, e proprietarie di marchi nostrani, che acquistano i nostri oli, ma anche europei ed extraeuropei, e fanno delle miscele, sempre di qualità ma a prezzi competitivi, quindi destinate prevalentemente alla grande distribuzione. Un esempio è la Deoleo, azienda spagnola che ha acquisito la Carapelli».

In tema di esportazioni, i dazi sull’olio imposti dagli Stati Uniti hanno colpito molti Paesi europei, Spagna in primis, ma non l’Italia. Questo ha favorito il nostro export?

«Sì, ha favorito le nostre esportazioni a danno degli spagnoli, che sono stati penalizzati dai dazi e che, tra l’altro, avevano investito moltissimo sugli Stati Uniti, lanciando anche un’enorme campagna cartellonistica. Così è aumentato l’export italiano e quello tunisino, e in più c’è stato un incremento nei consumi, quindi quello è un mercato che va studiato e aggredito, cercando di portare almeno lì un valore più alto associato a questo prodotto. Perché in Italia, forse per la nostra grande tradizione olearia, non lo valorizziamo abbastanza. A partire dai ristoranti, che hanno la carta dei vini e, addirittura, dell’acqua, ma non quella dell’olio: paghiamo il vino, l’acqua e l’olio è gratis, invece dovremmo poterlo scegliere, e pagarlo. Se non passa dall’essere un condimento a essere un alimento, non vinciamo la battaglia. Allora ecco che la cultura dell’olio cresce anche in relazione alla possibilità di assaporarne uno diverso per ogni alimento: dobbiamo passare da lì, se vogliamo valorizzare la nostra produzione e incrementarla».

Come farlo?

«Dobbiamo produrre più olio, dobbiamo rifare gli impianti, farli più intensivi, ma non super-intensivi, dobbiamo risolvere il problema del batterio di Xylella in Puglia. Abbiamo spazi per moltiplicare di tre, quattro volte la nostra capacità produttiva e affrontare i mercati del mondo, anche con costi di produzione più adeguati. Paradossalmente, i nuovi mercati potrebbero partire con un’altra marcia e quindi l’olio può essere proposto da subito come componente della ristorazione “da carta” e non “da tavola”. Questa è la strategia commerciale che suggerisco e che auspico venga messa in atto».

Volendo confrontare il mercato italiano con quello internazionale, si può dire che il nostro Paese è rimasto competitivo o si è lasciato sopraffare dalla concorrenza straniera?

«Sì, l’Italia non teme la concorrenza, tant’è che la Deoleo, una delle più grandi aziende di imbottigliamento al mondo, ha degli stabilimenti qui da noi e questo indica che siamo competitivi anche con la manodopera. Il nostro problema non è la competitività industriale né commerciale, ma produttiva, cioè noi produciamo poche olive da olio e soprattutto una quantità importante va all’olio lampante e non all’extravergine. Il problema è nell’olivicoltura, non è nell’industria olearia, il problema è agricolo: la Spagna è più competitiva perché, essendo più intensiva, produce di più».

Quindi la soluzione va cercata nel rinnovamento di impianti e colture?

«Bisogna rifare gli oliveti, ovviamente salvaguardando quelli storici per tutelare il paesaggio. Rifarli per renderli più intensivi, rimanendo comunque fedeli alle caratteristiche del nostro territorio, quindi sempre ad albero e non a filare come in Spagna. Infatti, ci sono sostanzialmente solo due, tre varietà adatte per il super-intensivo, che danno un olio di qualità, ma che non sposa le ambizioni di qualità italiane. Quindi dobbiamo utilizzare quelle autoctone e ne abbiamo più di 400: la nostra ampissima base di biodiversità ci viene in aiuto. Se però intensifichiamo gli oliveti per aumentare la resa, dobbiamo strutturare anche gli impianti e la logistica e adeguare i frantoi e i locali di stoccaggio, in modo che la produzione e il sistema che la assiste crescano in parallelo».

Si sta facendo qualcosa in tal senso? Ci sono segnali di cambiamento?

«In Italia c’è un piano olivicolo nazionale che ha puntato nella prima fase sulla ricerca, poi doveva ripartire con un investimento sulle strutture, ma ha subìto un arresto per via della crisi pandemica. Ora, però, nel PNRR c’è un capitolo dedicato all’olivicoltura e alla produzione olearia, quindi questa è la volta buona per dare la spinta definitiva al sistema. Così, l’oro verde può entrare negli accordi di filiere e distretti agroalimentari e, addirittura, nella generazione di agroenergie con gli scarti della lavorazione. Dunque, il progetto del PNRR non va a beneficio della singola azienda che lo utilizza per finanziarsi e migliorarsi, ma è un piano di sviluppo complessivo e a regia più ampia, all’interno del quale le imprese ricevono contributi per potersi strutturare. Questo perché dobbiamo ricostruire il nostro sistema oleario, ma ora come ora siamo un po’ troppo frazionati per riuscirci».

Qual è l’andamento del mercato del lavoro nel settore?

«Sconta un po’ le difficoltà tipiche di tutti i settori agricoli, soprattutto di quelli legati alle produzioni arboree – uva, ortofrutta e olivicoltura – che, quando si avvicinano le stagioni di raccolta, vanno in crisi perché la manodopera viene meno. Questo problema lo abbiamo avvertito ancora di più negli ultimi anni, sia per effetto della pandemia che ha fermato i flussi di braccianti stranieri verso l’Italia, sia per un eccessivo ricorso al reddito di cittadinanza che, soprattutto nelle regioni del Sud, ha disincentivato il lavoro per via del rischio di perdere il sussidio ed essere occupati solo pochi mesi».

Le difficoltà in cui versa l’agricoltura derivano dall’idea di “atipicità” che l’accompagna…

«In realtà si tratta di un lavoro “tipico”, infatti su oltre un milione di occupati, più dell’80% ha un contratto a tempo determinato, proprio perché la sua “tipicità” impone un fermo di alcuni mesi, per i quali è prevista la disoccupazione speciale. Allora è necessaria più attenzione alla “tipicità” del lavoro agricolo da parte del legislatore, che deve tenere conto dell’impossibilità di assumere a tempo indeterminato, ponendo magari dei limiti di giornate e un impegno a riassumere per tre anni consecutivi. In questo modo, la nostra manodopera godrebbe delle stesse tutele di cui gode quella a tempo indeterminato: riusciremmo a stabilizzarla, a specializzarla e a coinvolgerla in progetti di sviluppo aziendale. Invece, il rischio di un turnover continuo e anche di una scarsa professionalizzazione è un elemento che ci fa dire che c’è qualcosa che non funziona».

Questo è solo un auspicio per il futuro o qualcosa sta cambiando?

«No, a oggi questa situazione resta problematica. È ancora difficile sia reperire manodopera sia incentivare gli assuntori».

Qual è la realtà del lavoro?

«L’olivicoltura è un’attività a elevata intensità di manodopera dove non è possibile meccanizzare, quindi potatura e gestione del suolo, perché dove questo è possibile, per esempio nella fase di raccolta, il fabbisogno di forza lavoro cala significativamente. E i nuovi impianti, più meccanizzabili, diventano l’elemento che ancora una volta abbassa i costi di produzione. Però bisogna tenere conto dell’eterogeneità che caratterizza le nostre coltivazioni: penso, ad esempio, all’olivicoltura eroica delle colline della Toscana, dell’Umbria e delle Marche, dove la meccanizzazione è difficile da mettere in atto. In Liguria, sulle terrazze olivetate dell’Imperiese, è stata addirittura fatta una sperimentazione con l’Università di Genova per l’utilizzo di esoscheletri agevolatori, cioè veri e propri robot che vengono indossati dagli agricoltori, per cui parliamo di un’ulivicoltura davvero eroica».

L’applicazione della tecnologia sta dando esiti positivi?

«Le nuove tecnologie, nell’agricoltura di precisione, sono il presente e la frontiera, non il futuro, perché ci siamo già nel futuro: stiamo facendo cose importanti e avanzando davvero a grandi passi. Certo, è molto più facile farle in pianura, dove è possibile utilizzare macchine agricole tecnologicamente avanzate, piuttosto che sulle colline più ripide e in montagna, dove le difficoltà sono serie persino per gli operatori stessi. Quindi auspico che le università e la ricerca dedichino la propria attenzione anche a chi lavora in quelle condizioni precarie». ©

Nata e cresciuta in Brianza e un sogno nel cassetto – il mare. Ama leggere e scrivere ed è appassionata di comunicazione. Dopo la laurea magistrale in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, entra nella redazione de “il Bollettino” con un ricco bagaglio di conoscenze linguistiche acquisito durante il percorso scolastico. Ai lettori italiani porta notizie che arrivano da lontano – dall’Asia al mondo arabo.