Il futuro del settore olivicolo è il biologico. Le superfici a ulivo dalle quali si ricava questo prodotto di altissima qualità sono quasi raddoppiate tra il 2010 e il 2019, arrivando a coprire il 23% del totale nazionale. «La prospettiva, anche nella cornice delle politiche comunitarie legate al Green Deal, è quella di una crescita della percentuale di produzione biologica», dice Anna Rufolo, responsabile politiche ortofrutticole e olivicole di CIA – Agricoltori Italiani.
Parlando di qualità, quindi di prodotti di fascia alta, ci sono stati dei cambiamenti di percentuali nella produzione?
«La qualità del nostro olio ha una grande reputazione e l’extravergine italiano è quello che spunta sempre il prezzo migliore sul mercato europeo. Ovviamente il sistema qualitativo tiene conto di una serie di fattori che vanno dalla coltivazione, alla trasformazione, alla modalità di stoccaggio e di distribuzione, quindi la classificazione top che è l’extravergine è il risultato del lavoro congiunto di tutti gli operatori della filiera. E poi, con le nostre 48 denominazioni di qualità, abbiamo il primato in Europa. L’aspetto più rilevante è la crescita del biologico, che è una diventato una componente importante del prodotto nazionale: l’incidenza sul totale è di circa il 10% in volume, mentre in valore siamo sul 15%. Quindi, nel quadro complessivo della qualità ci sono questi aspetti da tenere in considerazione: il tema classificazione, il tema denominazione d’origine e quello del biologico».
Si sente spesso parlare di “mischioni” di olio di oliva ed extravergine provenienti soprattutto dall’estero, ma le tipologie di contraffazioni sono infinite… Com’è la situazione al momento? I controlli sulla qualità sono più rigidi?
«L’olio di oliva italiano è molto apprezzato e, di conseguenza, molto monitorato: i controlli ufficiali sul settore seguono quelli del vitivinicolo, che sono piuttosto rigidi e di natura sia qualitativa sia analitica e, chiaramente, vengono fatti anche sul prodotto importato. Esiste un registro telematico che monitora le quantità di prodotto, quindi il livello di trasparenza nella tracciabilità è molto alto».
Con tutti i controlli che ci sono, fenomeni di questo tipo saranno sempre più rari…
«I metodi di rilevamento di frodi e i controlli ci sono, ma il livello delle adulterazioni cresce in parallelo alla tecnologia utilizzata per gli accertamenti. Per questo è importante incentivare la ricerca di soluzioni tecnologiche sempre più sofisticate: strumenti scientifici di analisi o test in grado di fornire riscontri rapidi ed efficaci di eventuali imbrogli, come i “mischioni” di oli di oliva con altri oli, le classificazioni fasulle ecc.».
Quanto ha influito la pandemia su produzione e vendite?
«La produzione italiana ha sofferto molto e l’anno scorso c’è stato un calo rispetto alle piene aspettative. Abbiamo visto una riduzione al 30% che ha attestato i volumi a 255 mila tonnellate a fronte delle 366 mila della campagna precedente. I consumi, invece, sono stati molto consistenti, soprattutto quelli domestici, e questo ha determinato un incremento in volume (+7%) e in valore delle vendite dei format della GDO. Adesso confidiamo nella ripresa della ristorazione e del turismo legato ai paesaggi olivicoli, fondamentale per le coltivazioni più territoriali, per la ripartenza anche di questi canali di distribuzione. Sono andate molto bene le esportazioni, stimate in volume del +22% e +4% in valore e le importazioni, con +6%. L’import cresce perché non riusciamo ad auto-approvvigionarci, avendo una produzione inferiore alle esigenze sia di consumo interno sia a quelle legate all’export: il nostro principale fornitore è la Spagna e, subito in coda, Grecia e Tunisia».
E l’e-commerce?
«Come per ogni altro settore, è cresciuto a più cifre. In realtà c’era una tendenza già in salita che il Covid-19 ha contribuito a irrobustire, ma di sicuro rimarrà un canale da tenere d’occhio per il futuro, perché permette di accorciare la distanza tra produttore e consumatore, dando modo a chi acquista di avere qualche informazione in più sull’azienda olivicola. E poi parliamo di un prodotto trasformato, che certamente va maneggiato con cura perché molto delicato, ma che non è deperibile, per cui si presta bene a questo tipo di commercializzazione».
Come si sta riprendendo il settore oleario e quali sono le previsioni per il futuro?
«Per la campagna 2020/2021 le stime sono di 273 mila tonnellate, che è un volume di non piena produzione rispetto alle potenzialità del settore, con circa il 60% coperto dall’extravergine. L’Italia è, e resta, un grande player internazionale: è il secondo produttore ed esportatore dopo la Spagna, il primo importatore perché ha un’industria di imbottigliamento molto importante e anche il primo al mondo per consumi. Al momento, quelli mondiali si attestano attorno alle 3 milioni di tonnellate, ma l’olio di oliva ha grandi margini di sviluppo a livello internazionale, rappresentando circa il 4/5% del consumo di grassi. La pandemia ha accentuato l’attenzione alla salute, incentivando le vendite di olio extravergine, che è un alimento a tutti gli effetti con i suoi elevati benefici nutrizionali e di protezione contro molte patologie, cardiovascolari in primis. Quindi, nonostante ci sia ancora tanto da lavorare per migliorarne la conoscenza e incrementare gli acquisti, la previsione per il futuro è legata alla sempre maggiore riconoscibilità che questo prodotto di alta qualità otterrà a livello globale».
Qual è l’andamento dei prezzi dell’olio?
«Il 2020, da questo punto di vista, non è stato un anno molto positivo, ma adesso stiamo registrando dei prezzi più soddisfacenti: in media siamo sui 4,60 euro per l’extravergine, con qualche difficoltà in più sul vergine. Se guardiamo alla produzione, le stime iniziali erano anche più pessimistiche rispetto a queste 273 mila tonnellate ma, tenendo conto che in anni “boom” possiamo arrivare anche a 400 mila, si capisce che non è proprio piena produzione e, nonostante questo, il prezzo quest’anno ha tenuto».
In una recente intervista a il Bollettino Cristina Santagata, amministratore delegato dell’omonima azienda ligure che seleziona e commercializza olio in tutto il mondo, ha detto che con un litro di olio si catturano più di 10 kg di Co2. È una strada percorribile verso la sostenibilità ambientale? Qual è il futuro delle coltivazioni nel quadro della transizione ecologica? Cosa si sta facendo per ridurre l’impatto sul Pianeta, soprattutto a livello di soluzioni tecnologiche?
«La sostenibilità ambientale in olivicoltura è già una realtà perché le coltivazioni in Italia sono per la maggior parte di tipo tradizionale, quindi contribuiscono a contrastare i cambiamenti climatici, la desertificazione e l’abbandono delle zone agricole, preservano la biodiversità e hanno anche un fortissimo valore paesaggistico. Queste performance positive possono essere ulteriormente esaltate con pratiche che migliorino l’assorbimento di Co2 e riducano le emissioni in atmosfera, per esempio quelle di gestione della pianta e del suolo, come la lavorazione minima, di gestione delle potature oppure di copertura del terreno e, chiaramente, con la riduzione della lavorazione e dell’uso di fertilizzanti. Anche per l’estrazione abbiamo bisogno di tecnologie innovative che, da un lato, garantiscano la resa di trasformazione in olio e, dall’altro, non danneggino le sostanze benefiche, come i polifenoli, preservando sia l’aspetto qualitativo-organolettico, sia quello “salutistico” legato ad alcune componenti. E poi acquista un’importanza crescente la valorizzazione dei sottoprodotti, come le sanse e il nocciolino, a scopo energetico o cosmetico, per esempio con l’estrazione di polifenoli dalle acque di vegetazione. Così diamo nuova vita agli scarti finali sia per evitare che rimangano rifiuto sia per trasformali in nuovi prodotti da rimettere in circolo in tutta la filiera e sul mercato, e questo è strettamente legato al tema della sostenibilità ambientale e dell’economia circolare. È chiaro, quindi, che dobbiamo guardare a tutta la filiera, partendo delle pratiche agricole, dal campo, con l’ulivo che ha un ruolo rilevante nell’assorbimento di Co2, per poi passare a quelle di estrazione, fino alla valorizzazione dei residui di questo processo di trasformazione. Stiamo lavorando anche sulla certificazione di sostenibilità, per cui a scaffale i consumatori troveranno sempre più prodotto proveniente da questo tipo di percorso».
Che tipo di investimento bisogna fare per adeguare gli impianti attuali in vista di questa transizione?
«Dal punto di vista della produzione, sarà necessario ristrutturare parte degli uliveti e migliorarne la razionalizzazione. Sul campo, un ruolo importante lo giocherà la meccanizzazione, intesa come supporto allo svolgimento di pratiche agricole, quindi investimento in nuovi macchinari più sicuri e performanti che contribuiscano a ridurre le emissioni in atmosfera. La sfida che ha davanti il sistema olivicolo è quello di una riduzione ancora maggiore dell’impatto e di contrasto, ma soprattutto di adattamento, ai cambiamenti climatici, essendovi esposto direttamente con le sue colture in pieno campo. Per farlo, sono fondamentali innovazione e meccanizzazione, dal campo fino alla fase di trasformazione. Lo sguardo non può essere che d’insieme, con iniziative virtuose lungo tutta la filiera: quindi produzione, estrazione e poi conversione dei rifiuti in nuovo prodotto, che può anche essere energia rinnovabile per gli stabilimenti. Dobbiamo incentivare tutte le tecnologie utili a tal fine».
I costi sono sostenibili?
«L’azienda olivicola italiana media è di piccole dimensioni, quindi l’aspetto organizzativo diventa cruciale: se le singole imprese si riuniscono in forme aggregative, sarà più facile posizionarsi sul mercato e avere accesso all’innovazione. Dato che per noi la sostenibilità è sempre intesa nelle tre dimensioni: ambientale, economica e sociale, un altro elemento da considerare sono gli elevati costi di gestione di un uliveto tradizionale, legati alla lavorazione principalmente manuale richiesta da questo tipo di coltivazione. Quindi una modernizzazione degli impianti, ove possibile e in maniera coerente con la nostra identità territoriale, migliorerà le performance produttive e, di conseguenza, favorirà la razionalizzazione dei costi, garantendo la sopravvivenza delle aziende agricole». ©