Membro del CdA di Assicurazioni Generali, tra gli altri incarichi dirigenziali – come in Culti e Moncler – Diva Moriani ricopre anche quello di vicepresidente esecutivo di Intek, holding del gruppo del rame guidato da Vincenzo Manes. Un settore nell’occhio del ciclone – quello delle materie prime – in un momento storico che ne soffre la scarsità dovuta agli stop imposti dalla pandemia.
Il rame ha avuto una spinta in Borsa dallo scorso anno fino a maggio scorso, poi si è stabilizzato: investire ora conviene?
«Siamo entrati nell’età del rame a causa della sempre maggiore “elettrificazione” ed “elettronificazione” (conduttività del rame) verso la quale il mondo si sta incamminando. Senza arrivare a considerare l’affermazione definitiva dei veicoli elettrici, oggi un’auto normale ha al suo interno un tale contenuto di elettronica da aver moltiplicato per 100 il volume di rame necessario rispetto a 10 anni fa; e così è per elettrodomestici, elettronica di consumo, rinnovabili, IoT, ecc.ecc. Fino a oggi le riserve di rame LME erano rimaste costanti, non giustificando l’incremento di prezzo che abbiamo visto, e solo recentemente hanno cominciato a flettere per la prima volta dopo 30 anni. Questo era già fattorizzato all’interno dell’incremento di prezzo già registrato? Non saprei, c’è molta speculazione finanziaria e il trading finanziario è pari 50 volte quello fisico. A oggi nel mercato reale non c’è shortage di materiale e i principali operatori sono coperti per almeno 12 mesi.
Ma c’è qualcosa di più importante sul quale, secondo me, dobbiamo fare una riflessione: stiamo assistendo in questo momento di forte ripresa a sempre più frequenti disruptions delle supply chains; questo rischia di mettere seriamente in pericolo la tenuta di alcuni settori fondamentali. Chiediamoci perché. Per chi è sul campo la ragione è molto chiara e risiede sulla non equa distribuzione del profitto all’interno delle rispettive catene del valore. Quando ci troviamo in situazioni nelle quali a monte e a valle si polarizza il guadagno, gli operatori che stanno in mezzo (i trasformatori) vengono pressati in entrambe le direzioni, trovandosi costretti a continue ed estenuanti ricerche di efficienza, attraverso tagli di capacità che hanno portato spesso anche a delocalizzazioni. E qui è dove si è inceppata la supply chain.
Una redistribuzione dei margini all’interno della catena è la soluzione, se si vuole perseguire un vero successo sostenibile, perché “strizzare” certi operatori fondamentali alla catena di fornitura porta agli effetti che stiamo vedendo in questo periodo, fermo produzione per mancanza di materiali, delivery times fuori controllo, ecc. Durante la pandemia i capofiliera hanno svolto un ruolo fondamentale per sostenere le aziende minori evitando che andassero verso il collasso. Questa visione di sistema o dovrebbe sopravvivere all’emergenza e diventare il nuovo paradigma. Nell’interesse di tutti, soprattutto dei capofiliera».
Dal 2007 al 2017 è stata membro e presidente del Consiglio di Amministrazione della società quotata Ergycapital S.p.A., attiva nel settore delle energie rinnovabili e risparmio energetico. Un tema che monopolizza i mercati. Oggi come vede la situazione rispetto a 11 anni fa?
«A quell’epoca le rinnovabili erano una cosa molto diversa da oggi, con costi della tecnologia non sostenibili in assenza di incentivi. Un business che è stato a lungo in balia del regolatore e che ha messo in grande difficoltà molti operatori che basavano i loro piani d’affari – e quindi i project financing – su contributi soggetti continuamente a revisione anche retroattiva. I tempi autorizzativi delle installazioni poi non consentivano alcuna pianificazione e lasciavano spesso aree grigie all’interno delle quali non era affatto agevole muoversi in sicurezza. Praticamente una corsa a ostacoli.
Oggi, purtroppo, l’aspetto autorizzativo non è cambiato granché, i tempi sono ancora molto lunghi e incerti e questo impatta sull’attrazione/allocazione di grandi capitali nel nostro Paese per lo sviluppo in maniera massiva di questi impianti. Nel frattempo il costo della tecnologia si è ridotto drasticamente, rendendo queste fonti di energia estremamente convenienti. Credo che Paesi come il nostro potrebbero beneficiare molto di più delle energie rinnovabili se l’iter autorizzativo venisse semplificato, divenendo almeno comparabile a quello degli altri Paesi industrializzati.
Dopodiché penso che una transizione completa alle rinnovabili sia a oggi utopistica, se vogliamo mantenere gli attuali livelli di produttività e stili di vita. Grandissimi passi avanti si stanno compiendo nelle tecnologie di accumulo (batterie), ma ancora non sono sufficienti. Per realizzare la transizione energetica deve essere definita una visione d’insieme e una timeline che passa attraverso la coesistenza con il gas, unica fonte di energia in grado di fare da back up all’intermittenza delle rinnovabili senza impattare le nostre vite».
Il Green Deal sta mutando il nostro modo di vivere, di investire, di ricostruire usi e logistica: com’è cambiato il ruolo delle aziende rispetto a questo?
«Sono fondamentali nella transizione green: per vocazione, per riconversione o semplicemente per opportunità, stanno sposando la causa. Spinte dagli investitori – la finanza in questo caso ha giocato un ruolo di accelerazione fenomenale – le grandi aziende hanno cominciato a ripensarsi al loro interno e a come possono avere un’impatto verso l’esterno. Il green deal oggi per le aziende è un obbligo – pena la perdita di investitori e lenders – ma anche una grande opportunità economica, di attrazione di talenti, di entrata in mercati in grande sviluppo e soprattutto una grande leva di innovazione.
Si discute tanto dei costi, ma la verità è che, insieme al digitale, la sostenibilità è la più potente leva di cambiamento che un’azienda possa attivare in questo momento. E i ritorni di questa transizione diventeranno chiaramente apprezzabili in molto meno tempo di quanto ci aspettiamo, perchè andranno a impattare direttamente sul valore delle aziende, sulla loro appetibilità nei portafogli degli investitori, sulla loro attrattività per i migliori talenti e sulla preferenza espressa da parte dei clienti, che siano essi consumatori finali o operatori più alti nella filiera.
Fondamentale è poi il contributo di accelerazione alla transizione green che il connubio pubblico-privato può attivare. I capitali e l’organizzazione privata possono imprimere una velocità alla rivoluzione green che nessun PNRR potrebbe mai raggiungere da solo. Il pubblico deve mettere a disposizione una leva, ma è con l’intervento privato che si può ottenere un effetto moltiplicativo di vero impatto. Leggevo l’altro giorno l’intervento di Larry Fink sul NY Times che condivido totalmente: non c’è lotta al climate change che possa trascurare investimenti importanti nei paesi in via di sviluppo (i più grandi contributori di emissioni oggi e a tendere) perchè il pianeta è uno e non ci sono compartimenti stagni.
I capitali privati per investire in infrastrutture in quei paesi ci sono, quello che frena è l’instabilità politica, incertezza del diritto ecc.ecc. In questo senso la costituzione di un Fondo di Garanzia Internazionale per gli investimenti privati attiverebbe immediatamente l’entrata di un flusso di capitali privati importante da destinare alla transizione green. E una parte importante del problema sarebbe risolta.
I soldi del Pnrr sembrano quasi la manna che cambierà tutto, ma non è così: i progetti che servono saranno attuati in modo esaustivo e le nostre realtà sono pronte a misurarsi con l’Europa?
«Io credo e soprattutto spero di sì. Questa è un’occasione unica per il nostro Paese, per cambiarne il destino e uscire da quel circolo vizioso “mancanza di risorse-mancanza di innovazione-mancanza di prospettive future” in cui eravamo entrati da tanti anni. Oggi si respira un’aria diversa nel Paese. Con le persone giuste e competenti al governo, un ingente massa di risorse in arrivo, progetti identificati che possono far compiere un sostanziale salto in avanti al Paese e una volontà politica di fare finalmente quelle riforme di cui abbiamo bisogno da sempre.
Con queste premesse credo che si possa compiere proprio un buon lavoro e regalare ai nostri figli una nazione di cui andare fieri. Forse sono ottimista, ma per la prima volta sento molto ottimismo anche intorno a me e tanta voglia di fare sia nell’economia reale (imprenditori e manager) sia nella finanza e nelle istituzioni. È come se fosse stato tolto un tappo che comprimeva tutte le buone energie del Paese. C’è voglia di crescere e di fare, ci sono competenze e c’è fiducia nel futuro. E questi sono generalmente gli ingredienti giusti per un buon risultato».
Paradossalmente c’è voluta la pandemia, quindi un evento tragico, per farci sentire parte dell’Europa: un passo importante per il Sistema Italia, ma le riforme basteranno a renderci attrattivi per gli investimenti esteri?
«Sono totalmente d’accordo con la sua affermazione: la pandemia ci ha avvicinato all’Europa, togliendo al cittadino medio la sensazione di essere solo giudicato e tartassato da una madre-matrigna che impone solo regole e mostrando finalmente l’importanza di essere parte di qualcosa di più grande, positivo, moderno e capace di intervenire in maniera massiva e trasformativa “alla bisogna”. È un momento positivo importante quello che stiamo vivendo e la politica europea, dovrebbe interrogarsi su come sfruttarlo adeguatamente per accelerare il percorso verso un’Unione più forte. Purtroppo alcuni dei Paesi più importanti sono invece concentrati sulle loro elezioni politiche interne.
Ma questo dovrebbe portare a riflettere anche sull’opportunità di sviluppare una “sfera politica europea”, magari con allineamento delle scadenze elettorali, perchè no? È mai possibile che ci si “scanni” in un dibattito politico in patria quando ciò che veramente cambia le nostre vite e quelle dei nostri Paesi viene deciso a Bruxelles? Perché non alzare anche questo livello del dibattito? Sull’attrattività del Sistema Italia per gli investimenti esteri non vedo problemi sostanziali, stante le premesse di cui sopra: la nostra economia è viva e sta dimostrando non solo resilienza, ma anche la capacità di innovarsi e reagire alle nuove sfide. E in generale l’Italia esprime oggi valutazioni “a sconto” rispetto alle altre piazze finanziarie: quindi siamo anche un “buon affare”.
Oggi quello su cui ancora è necessario fare un salto quantico è la dimensione media delle aziende italiane, la loro capacità di mettersi insieme o aprirsi a capitali terzi per crescere. Il loro nanismo rappresenta un rischio importante sotto molteplici punti di vista, ma principalmente per le ridotte potenzialità di accesso all’innovazione/tecnologia e alle migliori risorse e competenze, elementi fondamentali per affrontare le sfide attuali e future del mercato. Su questo si deve lavorare per sfruttare al meglio anche la rinnovata attrattività del Paese per gli investimenti esteri».
Abbiamo assistito a un aumento della frequenza e dell’intensità delle catastrofi naturali, un effetto dovuto al cambiamento climatico. «Dobbiamo fermare questo processo e dobbiamo farlo subito. Se non interverremo, questo non sarà più assicurabile. Tecnicamente parlando, questo è un rischio che investe più le riassicurazioni che le compagnie assicurative. Ma se la riassicurazione non interverrà più, le assicurazioni dovranno aumentare significativamente i prezzi e non sarà più conveniente assicurare. E un tema che investe tutta l’industria assicurativa: è urgente affrontarlo ed è per questo che il settore assicurativo è intervenuto per zero emissioni nette di carbonio nel 2050 e forse dovremmo fare ancora di più”, ha detto recentemente Philippe Donnet – Ceo del Gruppo Generali – al festival State of Europe 2021. A che cosa si riferisce quando dice che si dovrebbe fare di più?
«Io credo che il mondo assicurativo possa giocare un ruolo fondamentale nella lotta al cambiamento climatico e, più in generale, sulla sostenibilità in senso allargato. Un business che si basa sul trading dei rischi ha tutte le leve a disposizione per posizionarsi in maniera decisa rispetto ai maggiori rischi del nostro tempo: clima e rischio sociale. E ha il dovere di farlo, a pena la sua stessa sopravvivenza. È così che l’assicuratore deve selezionare i rischi che si mette in portafoglio, privilegiando i clienti virtuosi e penalizzando gli altri, divenendo così egli stesso volano di buone pratiche. Con immediate ripercussioni positive sul proprio business.
E poi ricordiamoci che gli assicuratori sono anche grandi investitori con orizzonti temporali lunghi a disposizione: un capitale paziente che è esattamente ciò che serve per finanziare la transizione green. Un capitale che, opportunamente posizionato, può fare la differenza. Investire in sostenibilità contribuisce a ridurre i rischi climatici, da cui derivano le catastrofi naturali. E quindi anche qui ritorna la circolarità dell’impatto indiretto che si può generare sul proprio business assicurativo. Con questo voglio dire che le buone pratiche applicate all’azienda, al business e agli investimenti non fanno solo bene al pianeta – e questo già basterebbe – ma sono anche un buon affare per l’industria assicurativa stessa. E le masse complessive di cui stiamo parlando sono ingenti».
L’urgenza di spingere verso la digitalizzazione, uno dei principali driver di crescita per le compagnie assicurative: tra gli ambiti di possibile sviluppo, uno dei principali è rappresentato dalla Digital Health Insurance
«Anche nell’industria assicurativa la tecnologia sta cambiando moltissimo il modo di fare business e sicuramente l’impatto sull’Health Insurance è uno dei più interessanti e innovativi. Questo perché ha accelerato la trasformazione da “business degli indennizzi” a “business della prevenzione” e del wellbeing, passando per il “business dell’assistenza”. E questo è sostanziale, nell’interesse sociale sicuramente, ma anche nell’interesse della riduzione del rischio di business per l’assicurazione: stili di vita migliori e più controllati riducono sostanzialmente il rischio di malattie per l’assicurato, la necessità di assistenza e, conseguentemente, l’ammontare degli indennizzi che l’assicuratore è chiamato a versare.
Si torna sempre a quella circolarità che unisce la sostenibilità alla riduzione del rischio. Ovviamente le assicurazioni non sono organizzate per sostenere business complessi e tecnici come quelli della assistenza-prevenzione-wellbeing e qui entra in gioco il concetto di ecosistema, fatto di partnership con i migliori operatori specializzati, ognuno in un pezzo dell’offerta destinata al cliente. Non fornitori ma partner di un pacchetto di offerta costruita intorno al cliente e alle sue esigenze. La scelta e la buona gestione di queste partnership sarà sfida del futuro».
L’agevolazione fiscale del cosiddetto Superbonus 110% apre interessanti opportunità per le compagnie assicurative…
«Sì, certo. All’interno del Super bonus 110 ci sono svariati ambiti in cui l’assicurazione può intervenire fornendo un servizio al cliente. Si parte da servizi e soluzioni per la cessione del credito d’imposta, per passare alla tutela dell’attività lavorativa di professionisti e imprese, nonché dei beneficiari in caso di revoca del bonus. Per non parlare della protezione del patrimonio immobiliare della clientela. In generale la riqualificazione degli immobili va nella direzione di una riduzione dei rischi, quindi può rappresentare un’ottima opportunità per il settore assicurativo».
Nel 2020 è stata piuttosto vivace l’attività di M&A nel settore, guidata essenzialmente da operatori internazionali, da trend di consolidamento del settore e da accordi di bancassurance, tradizionale driver dell’M&A nel comparto assicurativo. L’emergenza Covid-19 ha avuto forti impatti in termini di interventi normativi a supporto del settore assicurativo e le compagnie oggi si trovano ad affrontare importanti cambiamenti di informativa finanziaria, prodotti e operatività
«La pandemia ha accelerato molti dei trend già in atto nel mercato e questo ha certamente intensificato l’attività di M&A nel settore. Tra i fattori critici principali ci sono i tassi di interesse estremamente bassi che, erodendo i margini del business vita, costringono le assicurazioni a ripensare/ristrutturare la loro offerta di prodotto. Poi ci sono i requisiti patrimoniali post Solvency II, che utilizzano l’M&A come fattore di ottimizzazione del capitale. E infine c’è la digitalizzazione, che richiede livelli di investimento così elevati da risultare sostenibili solo in presenza di dimensioni considerevoli oppure in combinazione con dismissioni.
A questo si aggiungono i nuovi stili di vita e le innovazioni regolamentari introdotti dalla pandemia, che hanno creato una varietà di nuove esigenze in grado di essere soddisfatte solo attraverso soluzioni digitali. Quanto agli interventi normativi, purtroppo, mi viene in mente subito il più deflagrante che è stato il divieto di distribuzione dei dividendi che ha relegato le sole aziende assicurative italiane in una posizione di scarsa competitività sul mercato finanziario rispetto ai loro concorrenti internazionali. Lasciare gli investitori per più di 12 mesi senza certezze sul pagamento del dividendo non fa certo bene al titolo».
L’hub di Bankitalia di INSURTECH a Milano in che modo è utile al settore? «Il settore assicurativo sta subendo una profonda trasformazione. È fondamentale la prossimità con centri di innovazione che sostengano l’evoluzione digitale del mercato finanziario. Questo consente di attrarre talenti e investimenti, rappresentando un punto di ascolto e confronto fondamentale per gli incumbent più tradizionali del settore. A Milano e non in Silicon Valley. Io credo che la digitalizzazione debba entrare prepotentemente nel business assicurativo, ma penso anche che non basti e che sia necessario avere piena visibilità sugli (e, magari, investire nel capitale di) operatori nativi digitali, sui loro nuovi business model e sulle nuove proposizioni. Dalla piena consapevolezza e dal confronto nascono le evoluzioni giuste che riducono il rischio di estinzione».
Guardando oltreconfine anche un nostro grande partner commerciale, la Cina, vive un momento di cambiamento. È stato il primo Paese a riprendersi dopo la pandemia ma ora sembra chiudersi economicamente anche per la scelta di Xi Jinping di prosperità comune. Di affari ne facciamo molti con loro: l’export della moda made in Italy verso il Paese è aumentato del 96% dall’anno scorso. Crede che possa essere una piazza economico finanziaria in crescita e alla quale puntare?
«Certo, i numeri di consumo interno della Cina sono enormi e destinati a crescere man mano che il benessere della popolazione aumenta. La prosperità comune va nella direzione di tirare fuori dalla povertà aree rurali ancora diffuse e innalzare il tenore di vita di un numero sempre maggiore di famiglie. Questo si tradurrà ovviamente in un mercato di consumo sempre più grande e sofisticato, dove il nostro export si sta posizionando molto bene. Certo i rapporti con la Cina si sono complicati un po’ con la pandemia, anche solo per il problema che risulta difficile (se non impossibile) viaggiare in Cina da quasi due anni. Gli affari – così come la gestione di joint venture o attività in loco – richiedono contatti personali regolari.
Se ci aggiungiamo poi il globale irrigidimento dei rapporti commerciali con la Cina e la capacità di upgrading della qualità di produzione dimostrata negli ultimi anni, certamente quella con il Paese del Dragone non è la liaison commerciale più semplice da gestire in questo momento, ma è imprescindibile! Sui numeri della moda starei attenta a farmi abbagliare dalle percentuali, perché stiamo parlando di un consumatore del lusso fortemente concentrato sul travel shopping prima della pandemia e che oggi acquista all’interno del Paese. Quindi l’effetto sostituzione è importante, visto che il travel shopping, crollato durante la pandemia, sta facendo molta fatica a ripartire. Nonostante questo i numeri del lusso sono molto buoni e il mercato cinese dimostra entusiasmo per i nostri prodotti, come prima della pandemia. D’altronde i grandi numeri del fashion si giocheranno nei prossimi anni tutti tra Cina, digital e GenZ».
Tra le sue cariche figura anche quella di board member di Fondazione Dynamo Camp. Quanto è importante e quanto impatta la sensibilità sociale nel suo stile di leadership?
«Dynamo Camp è un’iniziativa che ho seguito dalla sua nascita e che ha influito moltissimo sulla mia crescita come persona e come manager. È un posto meraviglioso nell’Appennino tosco-emiliano nato per ospitare gratuitamente bambini e ragazzi affetti da patologie gravi o croniche per periodi di vacanza. L’obiettivo è far ritrovare loro la serenità e la spensieratezza di stare insieme ai loro coetanei, superando i limiti imposti dalla malattia. È un posto dove la diversità diventa la vera forza, dove andare oltre i limiti della propria comfort zone è la regola, dove la cura degli altri è un privilegio. È un posto dove chi ci lavora è orgoglioso di farlo e si ritiene fortunato.
Nel tempo abbiamo ampliato l’area di intervento di Dynamo per andare a soddisfare bisogni contigui altrettanto importanti: le famiglie di bambini malati e altre categorie deboli, outreach negli ospedali o city camp per chi non può raggiungere il Camp. E abbiamo creato un’Accademy per aiutare le aziende interessate a fare la differenza in ambito Sociale a sviluppare progetti di engagement e di impatto come il nostro. È un posto dove facciamo conservazione del patrimonio naturale meraviglioso che abbiamo, dove sviluppiamo progetti d’arte con artisti e ragazzi, dove facciamo la radio dei ragazzi e produciamo musical o video con loro. Un posto molto speciale che ti insegna ogni volta qualcosa di importante». ©
Antonia Ronchei
Twitter: @roncheiconlainormale