giovedì, 25 Aprile 2024

Gervasoni, AIFI: «Più donne nel Private Capital, ma pagate meno dei colleghi»

Sommario
Private Capital

La presenza femminile nel settore del Private Capital è in aumento, ma ancora bassa nei ruoli apicali e nei team di investimento. Dai numeri della composizione degli operatori di Private Equity, soprattutto in riferimento ai team di investimento e alle posizioni senior, emerge che il percorso verso la parità di occupati tra uomini e donne sia ancora molto lungo: le donne, infatti, rappresentano il 40% della forza lavoro complessiva del settore, ma questa percentuale scende del 24% se si considera il team di investimento e al 13% se si guarda la fascia senior.

Le donne nel settore del Private Capital

Sul fronte assunzioni, il peso delle quote femminili sul totale è cresciuto negli ultimi anni arrivando a rappresentare il 45% nel 2022, aumentando così le opportunità di fare carriera per le donne. Se storicamente i percorsi di studio, facoltà di finanza e di ingegneria, risultavano maggiormente frequentate dagli uomini, oggi questo trend sta migliorando.

«In un settore molto maschile l’esigenza del riequilibrio di genere è forte e sentita. Il tema è avvicinare nuove leve», dice Anna Gervasoni, Direttore Generale di AIFI.

Come vede l’attuale panorama delle opportunità per le donne nel settore del Private Equity?

«Ce ne sono tantissime. Abbiamo donne di qualità nel settore del Private Equity ma sono ancora troppo poche. Non sono pienamente consapevoli di poter lavorare e bene nel mondo della finanza. Anche nei miei corsi di specializzazione la percentuale di presenza femminile è molto bassa. Bisogna lavorare per rendere maggiormente appetibile il settore fin dai primi step di formazione. È un lavoro che si può conciliare con la gestione della famiglia e della vita privata. Pregiudizi dal lato dell’offerta di lavoro non ce ne sono. Piano piano si vedono i risultati di questo cambio di rotta: nei fondi di Private Capital sta crescendo la presenza dei manager donna; è solo questione di tempo».

Il gender gap nuoce all’economia del Paese

In Italia, nel 2022, le donne detengono il 32% delle posizioni aziendali di comando: 2 punti percentuali in più rispetto al 2021. Le donne CEO sono salite al 20% così come quelle con ruoli nel senior management al 30% nel 2022. Tuttavia, il nostro Paese rimane ancora nelle retrovie tra le 30 maggiori economie mondiali.

La retribuzione oraria è pari a 15,2 € per le donne, 16,2 € per gli uomini; il gender pay gap è più alto tra i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%); mentre la media europea è del 16,3%. Il problema non è solo la differenza retributiva a parità di posizione lavorativa, ma anche il fatto che certe posizioni apicali sono quasi esclusivamente riservate ancora alla componente maschile.

Inoltre, la percentuale di donne disoccupate è decisamente maggiore degli uomini; nell’agosto 2021 il tasso di occupazione femminile era pari al 48,9% e quello degli uomini del 67,4%. Quando, si considerano tutti questi ulteriori parametri, tenendo conto della retribuzione lorda annua al posto di quella lorda oraria, il gap cresce enormemente tra i due generi, giungendo fino al 44%, mentre in Europa si attesta al 40%. In aggiunta, la pandemia ha contribuito ad amplificare questo divario. 

Il gender gap quanto e come nuoce all’economia del Paese?

«Il capitale umano è il frutto delle competenze femminili e maschili. Volerne solo una parte significa perdere qualcosa. Non è una sola questione femminile. Se un’azienda assumesse solo donne, ci sarebbe lo stesso problema. Dovremmo smettere di pensare a quante donne e quanti uomini devono essere presenti in un’azienda e cominciare a pensare a quali competenze e soft skill servono a una impresa e chi le può offrire».

La certificazione di parità, strumento per elevare sempre di più l’empowerment femminile, ha lo scopo di assicurare una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e ridurre il gender pay gap (l’Ue stima che per 1 euro guadagnato da un uomo, una donna prende 0,86), può cambiare davvero la situazione attuale?

«Può essere la spinta iniziale ma non l’unica. Serve cambiare il modo di approcciare al tema: dobbiamo pensare in modo più trasversale e non più a compartimenti. La casa non è un luogo solo femminile come la finanza non è solo maschile; uomini e donne possono fare entrambe le cose perché non esiste una competenza di esclusiva di genere; diamo alle nuove generazioni la libertà di scegliere cosa e come preferiscono essere e avremo un capitale umano più prestante, motivato e realizzato».

Il vantaggio dell’inclusività

Quali vantaggi hanno le imprese che applicano l’inclusività?

«L’inclusività porta ricchezze di idee, di soluzioni, di punti di vista. È fondamentale, nella finanza, avere ottiche differenti per approcciare l’attività. Le imprese con più equilibrio tra generi hanno più possibilità di affrontare temi importanti con visioni vincenti».

Quanto vale l’occupazione delle donne per il futuro dell’Italia?

«Non saprei quantificarlo in numeri però se pensiamo che la nostra costituzione, nell’articolo 36, parla di un lavoro che assicuri un’esistenza dignitosa, capiamo che non è una questione di genere. Se uomini e donne concorrono egualmente a lavorare per avere una esistenza dignitosa per sé e per le loro famiglie allora ne beneficerà tutto il Paese».

L’educazione finanziaria femminile

A che punto siamo sull’educazione finanziaria femminile in Italia?

«Anche qui il tema non credo sia di genere. Dovremmo insegnare di più fin dalle elementari, educazione finanziaria per rendere più consapevoli le nuove generazioni del mondo che andranno ad affrontare. Avere questo tipo di conoscenze non è utile solo a chi lo fa di mestiere, ma serve a tutti quelli che vorranno investire nei propri risparmi, accendere un mutuo per comprare una casa o chiedere un finanziamento per avviare una nuova attività.  La finanza non è un essere mitologico ma uno strumento che se ben compreso è utile a tutti».

Secondo il report di Idc commissionato da European Women in VC, su 400 società di VC censite che gestiscono almeno 25 milioni di euro, l’85% dei soci sono uomini e solo il 15% sono donne. In Italia com’è la situazione?

«Le donne sanno investire se hanno preparazione adeguata, esattamente come gli uomini, non vedo un tema di genere. Ma questo ancora una volta dipende in primis dalla volontà di cimentarsi in questa attività».

Il 20 marzo ci sarà il convegno AIFI, quali prospettive ci sono?

«Quel giorno avremo un parterre di ospiti internazionale per parlare del ruolo del private capital in Europa. Kpmg illustrerà il mercato degli investimenti e noi daremo una fotografia di come la finanza alternativa ha supportato negli anni occupazione, crescita del fatturato e internazionalizzazione delle aziende».

Rapporto Consob 2022 sulle scelte di investimento delle famiglie italiane
Rapporto Consob 2022 sulle scelte di investimento delle famiglie italiane

Il Private Capital nel mondo

Nel 2023 i livelli di Private Equity dry powder (il capitale che gli investitori istituzionali hanno impegnato nei fondi di Private Equity ma che non è ancora stato impiegato negli investimenti) sono vicini al massimo storico, attestandosi a livello globale a 1,24 trilioni di dollari. La maggior parte di questo denaro si trova negli Stati Uniti (circa 700 miliardi di dollari), seguiti dall’Europa (circa 250 miliardi di dollari).

Il 63% del piatto globale è stato raccolto a partire dal 2020. Considerando che l’obiettivo è quella di impiegare i fondi entro 3-5 anni, con i proventi restituiti in genere entro 10 anni, la relativa “giovinezza” del bacino sarà rassicurante per chi opera nel mercato del Private Equity. Perciò le società attive nel settore sono fortemente incentivate a impiegare il capitale.

Per dare un’idea di quanto sia grande questo bacino di capitali, ci vorrebbero circa tre anni per esaurirlo, se non si verificasse un’ulteriore raccolta di fondi, il che è improbabile.

Tuttavia, il forte calo dei mercati pubblici nel 2022 ha fatto sì che la maggior parte degli investitori non potesse aumentare o addirittura mantenere le proprie allocazioni di investimento nel private equity. Ciò è stato esacerbato dal tipico allontanamento dagli asset illiquidi, come i fondi di Private Equity, durante le turbolenze del mercato.

Com’è la situazione del private capital nel mondo, quali sono i Paesi più virtuosi e dov’è presente la più alta presenza delle donne?

«Il Private Capital sta crescendo, a livello di trend di lungo periodo in tutto il mondo. Il mercato anglosassone è quello che storicamente ha disegnato le best practice, ma ora si sta affermando un modello europeo ove non manca l’attenzione al tema di genere».

L’impulso all’economia nazionale del Private Capital

La prima parte del 2022 ha registrato una raccolta complessiva pari a 1.704 milioni di euro, in calo del 40% rispetto al primo semestre del 2021, che era stato caratterizzato da alcuni closing di dimensioni significative.

A livello geografico, l’82% dei capitali proviene da investitori domestici. L’ammontare investito è stato pari a 10,9 miliardi di euro, in crescita del 139% rispetto ai 4,6 miliardi del primo semestre del 2021. Si tratta del valore più alto mai raggiunto in un semestre nel mercato italiano: da sottolineare che tale ammontare risulta fortemente influenzato da alcune operazioni di dimensioni particolarmente elevate. Il numero di operazioni si è attestato a 338, in crescita del 34% rispetto alla prima parte del 2021, 253 investimenti.

In che modo il Private Equity può dare impulso all’economia nazionale?

«Il Private Equity gioca un ruolo fondamentale perché non fornisce solamente capitale per la crescita ma anche know how altamente preparato a gestire i cambi generazionali, i piani di crescita e sviluppo su nuovi mercati, l’implementazione dei principi ESG, ormai imprescindibili nei piani di qualunque azienda. Il Private Equity viene soprannominato anche capitale paziente proprio per il ruolo che svolge di partner che accompagna, senza fretta e con un’ottica di consolidamento aziendale, la realizzazione di obiettivi attraverso un piano di consolidamento di medio termine.  ©

Articolo tratto dal numero del 1° marzo 2023 de il Bollettino. Abbonati!

Laureato in Economia, Diritto e Finanza d’impresa presso l’Insubria di Varese, dopo un'esperienza come consulente creditizio ed un anno trascorso a Londra, decido di dedicarmi totalmente alla mia passione: rendere la finanza semplice ed accessibile a tutti. Per Il Bollettino, oltre a gestire la rubrica “l’esperto risponde”, scrivo di finanza, crypto, energia e sostenibilità. [email protected]