Sono aperte a Bruxelles le discussioni sulla riforma del Patto di stabilità. Le regole di bilancio più temute dall’Italia, quella del 3% massimo di deficit e del 60% di rapporto debito/PIL stanno passando sotto lo scrutinio dei Paesi europei, che decideranno se e come innovarli in vista di un rientro in vigore nel 2024, dopo le deroghe pandemiche. In particolare, il cambiamento dello scenario segnato dal Covid-19 e dalla crisi che stiamo vivendo fa sentire il peso del tempo su un accordo siglato nel 1997, anche se rivisto più volte. E molti, all’albore di un dibattito che difficilmente sarà breve, sperano che la storica rigidità sulle regole faccia spazio a una maggiore elasticità. «Non è che i numeri non contino. Anzi, sembra che a volte l’aritmetica dia fastidio a qualcuno», commenta Maria Cannata, economista, per 17 anni a capo della direzione Debito Pubblico del Tesoro e oggi Presidente MTS, mercato telematico dei Titoli di Stato parte del Gruppo Euronext. «Ma quello che tutti gli eventi, anche recenti, ci hanno dimostrato, è che il mercato vuole essere rassicurato su una certa continuità. Il fatto che non ci siano fratture rispetto a un percorso che tutto sommato è stato valutato abbastanza positivamente tranquillizza su questo fronte».
Di recente si è parlato di rinnovare il Patto di stabilità, ma c’è davvero bisogno di una modifica?
«Assolutamente sì. Già diversi anni fa si era fatto un lavoro intenso di revisione e devo dire che lo stesso Ministro Pier Carlo Padoan era riuscito a evidenziare alcuni difetti evidenti. Allora, con molto tempo e molto impegno, si era raccolta tutta una serie di consensi. Addirittura, nove Paesi avevano scritto e firmato una lettera dove si chiedeva di riconsiderare meglio alcuni aspetti delle valutazioni su questo fronte. Per questo, il Patto che abbiamo davanti oggi non è quello originale, ma il risultato delle modifiche operate dal 2011 in poi in vari interventi successivi, come il Fiscal Compact e le sue varie articolazioni. Poi è arrivata la pandemia, per non parlare della guerra. Questa serie di eventi assolutamente inattesi, di cigni neri, ha completamente modificato lo scenario. Se già anche prima questo passo di riduzione così rigido al 60% del debito lasciava perplessi, oggi appare decisamente anacronistico. Anche perché questa fase ha mostrato, forse più di altre, che alla fine ciò che può rendere un debito insostenibile è la perdita di fiducia degli investitori e del mercato».
Quali sono i punti storicamente considerati più critici per l’Italia?
«Si tratta principalmente dei criteri concernenti le modalità di valutazione degli andamenti, soprattutto per quel che riguarda la Debt Sustainability Analysis e il ruolo della metodologia con cui viene calcolato il PIL potenziale. In particolare, l’aspetto considerato più critico in passato riguardava i difetti di una metodologia che considera come denominatore (nel rapporto debito/PIL, ndr) il PIL potenziale, che è una variabile non osservata, dipendente in modo preponderante dal dato di input e da quanto si va indietro nel tempo per calcolarlo. L’Italia (ma potenzialmente anche altri Paesi) veniva un tempo fortemente penalizzata dal fatto che si guardasse indietro solamente di due anni».
Il problema è più nelle difficoltà di applicazione delle regole o in limiti troppo restrittivi per essere realistici?
«A quanto ho capito, non c’è la volontà di rivedere le soglie. Quel che si intravede è la possibilità di applicarle in maniera un po’ più elastica. Già per quel che riguarda il deficit, le proposte sono di mantenere il limite al 3% come faro generale, ma in un’ottica di medio periodo e quindi accettando piccoli scostamenti, sui quali in passato si era più intransigenti. Anche sul fronte del 60% sul rapporto debito/PIL l’approccio potrebbe essere simile. Tra l’altro, questa è forse la regola più discutibile, perché i grandi Paesi sono tutti al di sopra di questa soglia, compresa la Germania, che all’ultimo dato era al 68,6%. Insomma, si tratta di un numero dalla validità molto ipotetica: non si può certo dire che la Germania, perché ha il debito al 68% del PIL, non sia sostenibile, e così anche per altri stati».
Cosa pensa della proposta fatta dalla Commissione Europea a novembre?
«Ha degli spunti interessanti, ma lascia ancora parecchie questioni non del tutto chiarite. Di positivo c’è l’abbandono dell’ossessione sul dato annuale. Adesso si ragiona su un medio termine di quattro anni, per il quale poi i singoli stati possono anche chiedere un’estensione. Ma il discorso si complica, perché questa è sottoposta ad alcune limitazioni. In generale, ci sarà bisogno di molta negoziazione con le autorità nazionali, né sarà un percorso facile. Tanto più che, dal testo che è stato presentato a novembre scorso, almeno a livello ufficiale, non ci sono novità. Vedo la discussione ancora lunga. Per questo mi sembra un po’ difficile che si possa rilasciare una proposta più definita entro il primo trimestre di quest’anno, secondo l’obiettivo dichiarato. Ma bisogna vedere, anche perché un’accelerazione dei tempi potrebbe spingere verso un irrigidimento nelle posizioni delle parti».
Quali sono i principali difetti della proposta?
«Gli aspetti più critici del Patto restano. Ad esempio, come impostare la Debt Sustainability Analysis e il meccanismo di revisione del PIL potenziale. Il testo pecca anche nel lasciare un po’ troppo all’interpretazione, aprendo la strada al conflitto, specie con i Paesi nordici, che tendono a irrigidirsi notevolmente. Per giunta, mi sembrano ancora un po’ rigide certe apparenti concessioni. Come quella che passa per una grande apertura oltre il periodo quadriennale, cioè il fatto di poter chiedere le estensioni. Infatti, queste ultime sono considerate ammissibili in funzione di una tabella di marcia già molto rigida e legata in parte anche alla possibilità di far fruttare gli investimenti in un arco temporale ristretto, mentre per loro natura esplicano i loro effetti a più lungo termine. In più, ci sono incertezze e preoccupazioni riguardo alla classificazione dei Paesi in tre fasce: quelli potenzialmente a rischio, quelli al sicuro e quelli il cui rischio è ritenuto moderato sulla base delle previsioni e delle analisi. C’è chi pensa che questo possa creare una sorta di stigma verso i Paesi più a rischio. Tuttavia, il mercato è in grado di valutare i numeri autonomamente e determina quanto considera rischioso un Paese, per cui questo aspetto potrebbe essere meno preoccupante di quanto temuto».
Ultimamente si è tornato a parlare molto di sostenibilità del debito, ma cos’è e come la si ottiene?
«Non sono solo i numeri: sono importanti, ma se si fa solo un discorso puramente numerico, sopra il 100% del rapporto debito/PIL, non si è più sostenibili. Mentre, come sappiamo, oggi la maggior parte dei Paesi occidentali supera questa soglia, compresi gli Stati Uniti. Ciò che importa veramente è la capacità di affrontare le crisi. E, se dovessi dire, nell’ultima crisi l’Italia si è mossa abbastanza bene. Certo, si sono dovuti affrontare i problemi connessi alla pandemia. Poi però i risultati del 2021 e 2022 hanno mostrato una forte vitalità nell’economia del Paese».
La vera sostenibilità del debito è nel mercato, più che nei numeri?
«Il mercato è sempre stato il principale fattore di sostenibilità. Tanto che nella crisi del 2011 i numeri dell’Italia non erano così strani o assurdi da giustificare il panico che si è creato nell’autunno di quell’anno. Se guardiamo ai numeri puri, stavamo molto meglio allora di adesso, ma era una questione di credibilità che si era persa. E quindi, anche con un debito che allora era sotto il 120%, le prospettive parevano estremamente preoccupanti. In pratica, quello è stato un momento di panico. Ed è proprio per evitare reazioni del genere che il mercato va rassicurato. Dopodiché, se c’è la fiducia degli investitori, questa conta anche più delle cifre».
A quali aspetti guarda di più l’investitore, nel valutare la credibilità di un’economia nazionale?
«Il mercato, al di là della sensibilità al dato day-by-day, guarda a una certa continuità. Che non ci siano cambiamenti drammatici nell’impostazione delle politiche generali e che si faccia sempre una certa attenzione ai conti pubblici. Poi guarda al denominatore, cioè alla crescita e alle prospettive che questa crescita possa rafforzarsi e consolidarsi in futuro, attraverso l’attuazione delle riforme e grazie a investimenti che aiutano in questo senso. Questi sono i fattori, dunque: crescita, capacità di spesa ed efficientamento in generale. Ovviamente assieme a una certa attenzione ai conti pubblici, che oggi è tutt’altro che scontata. Nessuno rilegge Pinocchio. Mi riferisco, in particolare, alla parte in cui il gatto e la volpe gli fanno piantare le monete e lui crede che la mattina dopo si moltiplicheranno pendendo dagli alberi. Ecco, sembra che tutti pensino, un po’ come Pinocchio, che le risorse di uno Stato possano essere infinite. Ma Pinocchio è stato solo turlupinato».
Cosa vede nel 2023, a livello di debito?
«La performance dell’economia, anche nel 2022, e l’andamento del debito aprono prospettive piuttosto incoraggianti. Incrociando la prima stima del valore nominale del debito della Banca d’Italia, che in genere viene leggermente rivista nei mesi successivi, e la stima del PIL nella nota di aggiornamento al DEF, sembra che ci sarà una riduzione intorno al 5% del debito/PIL tra il 2021 e il 2022. Questo è già un ottimo risultato. Bisogna poi vedere se si riescono a mantenere le prospettive alla luce dei nuovi eventi, delle nuove decisioni politiche e delle nuove misure».
Qual è il punto più bisognoso di attenzione?
«Sul fronte dell’Italia, la cosa più fastidiosa è il divario dei tassi. Il differenziale tra l’Italia e Paesi come Spagna e Portogallo è ciò che pesa di più. Perché senz’altro la spesa per interessi del debito italiano è un fardello di molto superiore rispetto ad altri Stati che hanno sì un differenziale di rapporto debito/PIL rispetto a noi, ma non tale da giustificare un simile gap. Ad esempio, se è vero che siamo comunque 20 punti sopra il Portogallo, mi sembra che il differenziale in termini di interesse sia eccessivo e ci penalizzi ancora abbastanza».
Come affrontare i problemi legati al debito pubblico italiano, come l’eccessiva spesa per interessi?
«È una questione di riduzione dei tassi, non c’è niente da fare. Per ridurlo, noi dovremmo riuscire a chiudere questo differenziale, almeno con Spagna e Portogallo. D’altronde, il denominatore è sicuramente importantissimo per il livello del debito. Dunque, se davvero sarà confermato che l’anno scorso abbiamo ridotto il rapporto di cinque punti, sarà qualcosa che influirà positivamente. Peserà però nella misura in cui si sapranno sfruttare adeguatamente le risorse del Recovery Fund. La debolezza dell’Italia, sostanzialmente, è la scarsa efficienza della spesa pubblica. Ed è questo che ci penalizza, anche nelle analisi più accurate. È un aspetto legato a diversi fattori, e in primis una burocrazia assolutamente soffocante. Lo si vive anche come cittadini normali: qualunque cosa uno debba fare necessita di una montagna di adempimenti astrusi e i tempi di risposta sono lentissimi. È questo che poi scoraggia l’impresa in Italia. Ostacola gli italiani che vogliono fare impresa, ma anche gli investitori esteri dal venire in Italia: è un freno enorme. Per questo, riuscire a spendere bene quei soldi sarà il primo segnale per poter chiudere quel gap. Dopodiché, se si chiude quello, francamente rischi di sostenibilità non ne vedo».
C’è chi ipotizza che la BCE sarà costretta ad accettare un livello di inflazione e un livello di equilibrio dei tassi più alto di quello che si aspetta. Se questo accadesse, l’Italia rischia di finire in un “cattivo equilibrio”?
«Vedo molto difficile che la BCE alzi il suo target di inflazione. Detto questo, è stato ribadito più volte che si tratta di un obiettivo di medio periodo. E la prospettiva non è certo di raggiungerlo a breve, perché non sarebbe realistico. Se comunque la BCE decidesse di rivedere il target verso l’alto, si darebbe un segnale che anche i tassi rimarranno persino più alti di adesso. Alla fine, è il livello dei tassi, nominali e reali, ciò che conta per chi si indebita. Ma il reale va stimato sulla crescita di ogni Paese e su ogni Paese può avere un effetto diverso che da un altro».
Il pericolo di recessione apre a problemi sul debito, influenzando l’andamento dei tassi reali?
«Questo è un anno sicuramente debole. Però l’abbrivio che si è preso nel 2022 fa partire da un livello abbastanza rassicurante. Non vuol dire che non ci saranno problemi, ma si prevede un recupero nel 2024. Poi bisogna vedere l’inflazione. Per un Paese con un altro debito, anche se ci sono ricadute sociali, un po’ di inflazione, dopo tanto tempo praticamente a zero, potrebbe non guastare. Infine, c’è il deflattore, che è quello che alla fine determina il PIL nominale, non la variazione dei prezzi al consumo. Il problema è che spesso si discosta, e non poco, dall’andamento dei prezzi al consumo. Per anni abbiamo avuto sorprese negative su questo fronte, anche perché non è facile da stimare, dipende da molti fattori. Spesso si pensa che con alta inflazione anche il deflattore aumenti molto, ma non è così: ha una dinamica diversa e anche più difficile da prevedere». ©
Articolo tratto dal numero del 15 marzo 2023 de il Bollettino. Abbonati!