lunedì, 29 Aprile 2024

Investimenti e microchip: chi sono i player contro la Cina

Sommario
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Si muove, forse, qualcosa in direzione di un’Europa più competitiva sui semiconduttori. È recente la notizia, dopo più di un anno di trattative, del raggiungimento di un accordo politico sul Chips Act dell’UE. Il pacchetto legislativo, messo a punto dal Parlamento europeo a febbraio dello scorso anno, aspettava il via libera del Consiglio per proseguire il suo percorso di approvazione. Al termine del trilogo, il dialogo mediato dalla Commissione Europea, le parti sono giunte a un accordo su uno stanziamento di 3,3 miliardi di euro.

Il testo di legge, varato in risposta ai problemi di fornitura derivanti dalla crisi pandemica e dalla crescente instabilità internazionale, rappresenta uno step fondamentale nel cammino europeo verso una maggiore indipendenza da fornitori esterni. Una linea di grande importanza strategica, ora che la guerra in Ucraina e il decoupling dalla Russia hanno reso evidenti le debolezze e le mancanze strutturali delle catene di produzione.

«Non c’è un oggetto che usiamo nella nostra vita quotidiana senza un chip: smartphone, elettrodomestici e auto», ha sottolineato Dan Nica, europarlamentare e autore del Chips Act Report. «Il nostro consumo di chip, nell’Unione Europea, è importante. Ma non siamo in grado di produrre che una piccola porzione dei nostri bisogni. E questo è il motivo per cui attuare una nuova strategia per portare gli investitori stranieri a investire nell’UE e per aumentare la produzione. Se i chip sono prodotti in Europa, si può essere sicuri che, qualsiasi cosa accada nel mondo, potremo proseguire le nostre vite quotidiane senza incidenti. In caso contrario, saremmo esposti a qualsiasi crisi internazionale. La lezione appresa dopo la guerra in Ucraina è che dobbiamo essere certi di coprire un certo livello di forniture per assicurare che la produzione industriale prosegua. Dobbiamo accorciare le catene di produzione».

D’altronde, quello giunto dai tavoli europei è tutt’altro che un passo isolato, che arriva in un momento di grande instabilità nel mercato mondiale dei chip, sospinto da forze di diversa intensità e direzione, ma che aspirano tutte a diventare “game changer”, sparigliando le carte.

Semiconduttori e PC

Un primo fattore che influisce fortemente sulle vicende del mondo dei microprocessori è l’andamento delle vendite di PC. Tra i prodotti più diffusi che impiegano chip, la domanda di computer è uno degli aspetti più rilevanti nel breve termine. Nel primo quarto del 2023, abbiamo assistito a una forte contrazione nelle vendite, con un calo del numero di unità vendute del 29% (DATI IDC Tracker) rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente. Con la discesa da 80,2 a 59,2 milioni di unità a livello globale, per la prima volta dall’inizio della pandemia si scende sotto la quota simbolica di 60 milioni di unità.

Il fenomeno è legato principalmente al calo della domanda che fa seguito alla stessa pandemia. Gli stessi compratori che, nell’esplosione del virus e dei lockdown, si erano improvvisamente trovati a corto di dispositivi, si trovano ora in un surplus che li porta a comprare meno. Al contrario, le case di produzione, che avevano regolato le loro procedure su una domanda molto alta e crescente, si trovano in un eccesso di scorte che potrebbe protrarsi per tutto il resto dell’anno. Questo determina un effetto simile sulla domanda dei chip usati nella produzione di PC. In questo caso, la curva di domanda scende dell’8,7% anno su anno (DATI Semiconductor Industry Association).

Ma le ripercussioni della crisi di domanda e dell’eccesso di scorte da essa determinato sono ancora più profonde. Infatti, i colossi del settore, messi di fronte a un mercato in raffreddamento, avranno a disposizione più risorse, in termini di tempo, personale e denaro, da investire nella ricerca di soluzioni più stabili e di lungo termine per le loro forniture di microchip. D’altra parte, passata la vampata che ha tenuto attive 24 ore su 24 le loro fornaci, i grandi produttori di chip potrebbero essere indotti a venire a più miti consigli, concedendo contratti più vantaggiosi ai clienti. E forse, chi aspira a guardare a mercati diversi per ottenere i propri rifornimenti, avrà a disposizione una finestra per farlo. Il tutto fermo restando un mercato ancora molto strozzato, con le produzioni fortemente dipendenti da una manciata di compagnie e una domanda molto alta.

La trimestrale nera di Intel

Nonostante la momentanea correzione, ci si aspetta per lo più che la domanda di PC torni a normalizzarsi verso la seconda metà di quest’anno. Allora, secondo gli esperti, gli effetti dell’aggiornamento al nuovo sistema operativo Windows 11 dovrebbero finalmente entrare nel mercato, generando una spinta al rinnovo dei dispositivi. Nel frattempo, però, il momentaneo calo fa le sue vittime.

La più illustre è Intel, che ha pubblicato il peggior risultato trimestrale della sua storia. Le sue entrate sono scese a 11,7 miliardi, con un calo del 36% su base annua. Un duro colpo, che mette i bastoni tra le ruote della compagnia al centro del rilancio della produzione americana di microprocessori. Una campagna che si origina dal CHIPS and Science Act americano e si inquadra nel più ampio contesto della competizione geopolitica con la crescente potenza cinese.

Oltre che agli armamenti, infatti, USA e Cina si lanciano in una corsa ai microchip. Nello scorso anno, la nuova normativa americana ha comportato finanziamenti per 40 miliardi di dollari, mentre il governo cinese paventa un titanico finanziamento da più di un triliardo di yuan (ben 145 miliardi di dollari), messo però in pausa da gennaio nel mezzo delle preoccupazioni di una nuova ondata pandemica. Insomma, le due superpotenze stanno mettendo sul piatto, almeno formalmente, cifre stratosferiche. L’obiettivo è conquistare un dominio strategico su un settore essenziale per le innovazioni tecnologiche che le transizioni ecologica e digitale portano con sé.

Non solo computer, ma anche veicoli elettrici e impianti per raccogliere energia rinnovabile: tutto passa per l’uso di chip di ultima generazione. E questa sfida assume significanza geopolitica ancora più ampia se si considera che il primo produttore di chip al mondo si trova a Taiwan. Si tratta di Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, che nel quarto trimestre del 2022 deteneva da sola niente meno che il 58,5% del mercato globale. Per confronto, la seconda in classifica, la coreana Samsung, si è fermata al 15,8% del fatturato globale. Una ragione più che valida per attirare le mire espansionistiche di Pechino sull’isola al largo del Pacifico.

La sfida tecnologica

Ma su che campo si gioca la partita per il controllo del mercato dei semiconduttori? Innanzitutto, su quello della capacità produttiva. Trattandosi di un settore complesso e ad altissima intensità di capitali, quello dei chip è un ambito tendente a una fortissima concentrazione, con barriere all’entrata difficili da superare. Si producono tipicamente in una manciata di fonderie di proporzioni macroscopiche, che richiedono investimenti miliardari e anni di lavoro per essere realizzate. Ma, in virtù dei tempi di realizzazione molto lunghi, la visione si amplia per guardare in là nel futuro e la sfida si gioca anche e soprattutto su un piano tecnologico.

Al momento, il mercato attraversa un cambiamento più che mai radicale, dovendo tenere dietro ai nuovi bisogni tecnologici legati a sostenibilità e a digitalizzazione. Una combinazione di fattori che ha spinto anche player un tempo subordinati a raccogliere la sfida e cercare di realizzare il prodotto finale migliore. È il caso di Apple, che, dopo anni da cliente di Intel, ha scelto di lanciare una linea di pc basata su processori nativi. E perfino Arm, la compagnia britannica titolare della tecnologia omonima, alla base dei processori di molti computer e di quasi tutti i dispositivi mobili, pare essere intenzionata a espandersi a valle nella filiera, con un intero team dedicato alla progettazione di un nuovo chip. Espandendo l’orizzonte agli interessi nazionali e internazionali, saper tenere il passo di queste innovazioni ed elaborarne di nuove nel lungo termine può essere la chiave per ottenere la supremazia.

Per il momento, sono gli USA a detenere il primato mondiale nel design dei chip, poi prodotti perlopiù a Taiwan o in Corea del Sud. Ma la Cina e la stessa Taiwan stanno sviluppando un avanzamento più notevole anche in questo campo, tanto da minacciare il tradizionale primato americano. Proprio per mettere i bastoni tra le ruote ai rivali, il governo americano ha emanato una serie di restrizioni che potrebbero influire considerevolmente. Si va dal divieto di esportare tecnologie impiegate nella produzione dei chip più avanzati a quello, più specifico, di vendere in Cina tecnologie prodotte grazie ad alcuni strumenti americani utili per la messa a punto di chip logici e di memoria. Ma si tratta di provvedimenti difficili da applicare, e nel tempo questi embarghi potranno solo rallentare, ma non fermare l’avanzamento cinese nel campo.

Il protezionismo dell’Europa

Anche in seno all’Unione Europea, non manca chi sembra voler seguire la linea d’azione americana, contraddistinta da una tendenza protezionistica e da un’aperta ostilità alla Cina. È il caso dei Paesi Bassi e del Giappone. Entrambi i Paesi hanno accettato di stilare una lista di tecnologie sensibili, per esportare le quali sarà necessaria una licenza del governo.

L’Olanda rappresenta un tassello chiave nella value chain dei semiconduttori, grazie alla sua azienda di punta ASML (Advanced Semiconductor Materials Lithography). Valutata a ben 240 miliardi di dollari, è la più importante compagnia europea nel campo dei semiconduttori. Un fatto dovuto per lo più al suo know how nei campi della litografia ultravioletta esterna (EUVL) e dei dispositivi litografici a immersione (DUV). Si tratta delle tecnologie più sofisticate per incidere i chip sui wafer in silicio di partenza. Senza di esse, Cina e altri concorrenti potrebbero trovarsi in difficoltà, specie nel realizzare i chip più avanzati e complessi. Tanto più che a mettere loro i bastoni tra le ruote potrebbe mettersi anche un altro Paese europeo.

Il governo tedesco starebbe infatti valutando un divieto di esportazione verso la Cina di materiali impiegati nella produzione di semiconduttori. Si tratta soprattutto dei prodotti delle sue aziende chimiche Merck e BASF, tra i leader mondiali del settore.

Scegliere di investire

Ma il gioco delle proibizioni vale la candela? Forse no. Quella di embarghi e divieti è una tattica pericolosa, che spesso si ritorce contro chi li emana. Ad esempio, l’esportazione di DUV, su cui presto potrebbe gravare un divieto governativo, rappresenta la seconda fonte di guadagno per ASML, con un incasso di 8 miliardi nel 2022. Se la vendita alla Cina fosse limitata, la compagnia perderebbe lo sbocco su uno dei mercati più grandi e in maggior crescita al mondo. E questo non verrebbe senza danni a un’azienda dall’interesse nazionale tanto grande. Uno scenario analogo, anche se in proporzioni minori, si potrebbe prefigurare per le aziende chimiche tedesche, private a loro volta di un bacino di clientela.

In più, allargando l’obiettivo, la Cina detiene a sua volta tecnologie fondamentali, nel campo di decarbonizzazione e transizione ecologica. Quelle sulla lavorazione delle cosiddette “terre rare”, impiegate nel campo dei veicoli elettrici come degli impianti eolici off-shore. Se ne restringesse l’esportazione più di quanto non fa adesso, potrebbe rallentare considerevolmente i nostri avanzamenti in questa direzione. Insomma, non è dal proibizionismo che l’Europa deve aspettarsi di trovare le armi per battere Pechino. L’aspetto più importante, soprattutto nel lungo termine, resta quello di investire su noi stessi e sull’aumento della nostra capacità produttiva. È una condicio sine qua non perché l’Europa possa tornare ad avere un’indipendenza reale a livello geopolitico.

Certo, qualcosa già si muove in questa direzione. Poche settimane fa l’UE ha votato un pacchetto di aiuti di Stato del governo francese dal valore di 7,4 miliardi di euro. Sarà impiegato per supportare la franco-italiana STMicroelectronics e l’americana GlobalFoundries a costruire un nuovo megaimpianto di produzione a Crolles, vicino a Grenobles. E, sempre grazie agli incentivi previsti dal Chips Act, TSMC ha annunciato che costruirà una fabbrica di analoghe dimensioni presso Dresda in Germania.

Ma questi investimenti saranno abbastanza per garantire l’autonomia europea nel mercato dei chip? In un settore competitivo e strategico come questo, è probabile che sarà necessario spingere i finanziamenti a un livello ancora più alto e rinnovarli, anno dopo anno, per stare al passo con il rapidissimo cambiamento che viviamo. Tuttavia, la strada su cui si incammina l’Europa è quella giusta, come dimostrano i passi avanti sul tavolo del Chips Act. Ma anche i consistenti investimenti di multinazionali di punta come Intel e TSMC, primi frutti di una politica che, a lungo andare, sarà inevitabilmente più fertile di quella dei divieti di esportazione incoraggiata oggi dagli Stati Uniti.                       ©

Articolo tratto dal numero del 15 maggio 2023. Abbonati!

Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".