mercoledì, 24 Aprile 2024

Numeri da capogiro per la bellezza italiana

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Bella Italia di nome e di fatto: perché l’industria della bellezza è un pilastro per il nostro Paese e la sua economia. Basti pensare che il 67% del make-up consumato nell’intera Europa e il 55% di tutto il make-up consumato a livello mondiale è prodotto da imprese nostrane. Le esportazioni valgono infatti oltre il 40% del fatturato totale del settore. In particolare, nel 2022 hanno toccato i 5,9 miliardi di euro. Se si paragona l’industria beauty a una affine come può essere quella della moda, ci si rende conto di quanto non se ne parli ancora più di tanto, nonostante i numeri estremamente positivi e le potenzialità di crescita ancora ampie.

«In questi due anni si sono verificati cambiamenti nelle modalità di distribuzione e consumo che mediamente avvengono in 15 anni». Dice Gian Andrea Positano, responsabile del Centro Studi di Cosmetica Italia. La passione per il settore cosmetico è ribadita dall’andamento positivo dei consumi nel mercato italiano, che nel 2022 superano quota 11,5 miliardi. Con un trend in positivo dell’8,1% sul 2021. Ogni individuo utilizza quotidianamente almeno 8 cosmetici. Dai gesti legati all’igiene, passando per idratazione e protezione, fino ad arrivare al tocco di make-up o profumo, i prodotti di bellezza sono entrati nella nostra routine senza che neanche ce ne accorgessimo, diventando essenziali.

In generale, la grande distribuzione resta il canale con la quota più consistente dei consumi interni (circa 42%). Mentre la profumeria rafforza la seconda posizione (19,3%), seguita al terzo posto dalla farmacia (17%). L’e-commerce, complice la forte accelerazione impressa dai lockdown, ha quasi raddoppiato il proprio valore dal 2019. Arrivando a coprire nel 2022 l’8,6% dei consumi cosmetici degli italiani. «I dati mostrano un pieno recupero e un superamento dei valori pre-pandemia.

Al contempo ci permettono di delineare nuove abitudini di acquisto, sempre più orientate alla multicanalità. Gli stessi canali ampliano e rivedono la loro offerta. Come nel caso della profumeria, che si apre sempre più a categorie merceologiche come la cura di viso e corpo o il make-up, per rispondere in maniera puntuale alle rinnovate esigenze del consumatore». Nel paniere di consumo di cosmetici i prodotti per la cura del viso (16,4%), la cura del corpo (15,3%) e la profumeria alcolica (13,6%) restano trainanti in termini di peso sul totale degli acquisti nei canali tradizionali.

«Il primo numero da considerare è il valore della produzione. Ovvero il sell in: quanto le aziende italiane producono e immettono sui mercati nazionali e esteri. Nel 2022 il fatturato ha superato i 13,3 miliardi di euro, con una significativa crescita del 12,1%. Un dato in aumento del 10,5% anche rispetto al 2019, che è poi il vero punto di riferimento per guardare a prima della crisi. La cosmetica italiana è resiliente, e la tendenza è positiva. Per l’anno in corso prevediamo un ulteriore incremento di quasi 8 punti percentuali, per totalizzare 14,5 miliardi di euro».

Come ci posizioniamo in relazione ai mercati esteri?

«Per quanto riguarda l’export, lo scorso anno abbiamo sfiorato i 6 miliardi euro, con una rilevante crescita di oltre 18 punti percentuali. Pensiamo addirittura di superare i 6,4 miliardi nel 2023, con un altro balzo del 10%. É importante sottolineare che quest’anno, per la prima volta, gli Stati Uniti sono stati il nostro mercato principale. A seguire Francia, Germania, Spagna e Inghilterra. Per l’industria della bellezza tricolore questo è un dato di grande importanza, in quanto significa che l’Italia ha guadagnato preziose quote di mercato anche su Paesi molto importanti e conferma che la nostra offerta è ormai ben consolidata e radicata anche all’estero.

Non meno importante poi è il fatto che stiamo acquisendo molte quote nell’Est Asiatico, prima di tutto a Hong Kong e Singapore, che sono un po’ la porta di ingresso indiretto alla Cina. Allo stesso tempo stiamo crescendo a velocità molto significative anche nei Paesi Arabi. Per la Cina va fatto un discorso a parte. La regione rappresenta indubbiamente un mercato molto importante ma purtroppo altrettanto complicato e di difficile penetrazione. La ragione è riconducibile alle varie normative doganali e alle rigide condizioni per l’importazione, che noi chiamiamo barriere. Ma come dicevo prima attraverso le esportazioni a Singapore, Hong Kong e paesi limitrofi è possibile in un certo qual senso bypassare questi problemi. In ogni caso la bellezza italiana è oggi altamente competitiva anche all’estero».

L’ascesa e crescente popolarità della cosmetica coreana (K Beauty), soprattutto nell’ambito della skincare, è da vedersi come una minaccia per la nostra offerta?

«La Corea è di fatto il nostro primo  e più importante concorrente. Questo perché, a mio avviso, hanno una cultura della bellezza e del sentirsi bene molto antica, un po’ come la nostra, che non è presente in tanti altri Paesi al mondo. Hanno anche una tradizione produttiva molto vicina alla nostra, con un’attenzione particolare alla skincare, ma anche ai processi di innovazione, e in questo sono molto molto simili».

Sono molti i primati che la nostra filiera raggiunge su scala internazionale e globale. Perché allora si parla tanto di moda, ma molto meno di bellezza Made in Italy?

«La risposta è molto semplice: non ci sono tanti brand italiani di cosmetica quanti di moda. In generale in Italia il settore si è sviluppato con modalità diverse: alcune aziende sono “figlie” di multinazionali e piano piano si sono rese indipendenti. Oppure, partendo dal dopoguerra,  un’altra tipologia di nascita deriva dai piccoli farmacisti che col tempo hanno sviluppato delle formulazioni, delle produzioni di nicchia, e sono rimasti ancorati a un concetto di produzione e non di marchio così come invece è accaduto nel mondo della moda. La fashion industry nazionale, invece, si è sviluppata così: da un lato sono nati degli imprenditori che hanno capito da subito che dovevano inventarsi un brand, come Zegna o Trussardi ad esempio.

Per altri, lo sviluppo parte dai sarti/stilisti che invece hanno intuito che non potevano restare semplici artigiani, ma dovevano unire la parte creativa all’imprenditoria per creare un marchio. Armani e Ferrè sono l’esempio di designer diventati imprenditori, in contrapposizione agli imprenditori diventati marchi. Almeno nel nostro Paese, nella cosmetica questo non è successo. Siamo rimasti ancorati alle tradizioni con una fortissima e molto qualificata attività produttiva che dà origine a questo 67% di cosmetici da trucco utilizzati in Europa, ma non ha fatto nascere tanti marchi beauty Made in Italy. Per ora sono pochissimi: e anche se il numero sta aumentando, lo fa davvero molto lentamente.

Nonostante ciò, le nostre aziende ricevono l’attenzione di tanti fondi finanziari che hanno colto il grosso potenziale latente, potenziale che ha solamente bisogno di essere aiutato per far proliferare nuovi brand Made in Italy. Resta tuttavia un processo molto lento, proprio perché è difficile estirpare una genetica che ha origini molto antiche».

Che peso hanno avuto i social media e gli influencer per la crescita del settore?

«Sicuramente la cosmetica si presta molto a questo business e ai social media. Lo dimostra anche il fatto che gli influencer specifici della bellezza sono quelli che hanno i più alti numeri del mondo, rispetto a quelli di moda, design o altri settori. Fondamentalmente, ciò accade  perché è più facile raccontare e provare un prodotto di bellezza, anche per gli utenti e le persone dietro lo schermo.

Ne consegue che tra influencer e follower viene a crearsi in maniera semplice un rapporto molto più diretto rispetto a quello che succede con altre categorie merceologiche. Non si può negare che gli influencer abbiano avuto un ruolo importante nello sviluppo della comunicazione e delle strategie di marketing dei cosmetici, fino ad arrivare a quei casi in cui il beauty influencer è diventato anche imprenditore, lanciando il suo proprio marchio».

Negli ultimi anni si è assistito a un progressivo boom della skincare rispetto al make-up. In Italia cosa va per la maggiore?

«Le statistiche fanno riferimento a un incremento del make-up, ma semplicemente perché aveva subito un rallentamento a causa della pandemia, quando la gente si truccava meno. Più in generale c’è stato un forte cambiamento sia nelle abitudini di acquisto che nell’utilizzo dei cosmetici da parte dei consumatori. Tanto è vero che sono aumentati di quasi il 50% i make-up che hanno anche una funzione idratante, fenomeno che fino a qualche anno fa non avevamo riscontrato.

E questa è un po’ una rivoluzione: da un lato abbiamo il ritorno del make-up come abitudine d’uso comune e quotidiano; d’altro canto constatiamo che il consumatore, un po’ per obbligo e un po’ per consapevolezza, ha anche cambiato il suo approccio al prodotto cosmetico. Ha capito più a fondo la sua funzione, di cui fa sicuramente parte l’idratazione e la cura. Ecco perché un trucco che sia anche idratante è congeniale e allineato alle nuove esigenze del mercato».

Quanto è importante adesso il fattore green, inteso come bio, vegan e sostenibile?

«Stiamo attraversando un momento importante e insieme confuso rispetto all’approccio a questi concetti. Si tratta fondamentalmente di strategie di marketing, in quanto non esiste nessun regolamento specifico in merito a queste aggettivazioni. Non tutti lo sanno ma il cosmetico è in assoluto, insieme al farmaco, il prodotto più regolamentato a favore della salute del consumatore, più di qualsiasi altra categoria merceologica. C’è molto rigore nelle classificazioni, nelle descrizioni e nelle metodologie sia di produzione che di utilizzo.

Ma quando si parla di prodotti beauty biologici, naturali e organici non esiste alcun iter ufficiale e  specifico che possa definirli tali. Ecco perché parlo di marketing. Ciò non toglie che questa tendenza abbia preso piede e si sia evoluta al punto che noi osserviamo il fenomeno già da 6-7 anni, come Centro Studi. In poche parole su una crescita di mercato di oltre il 12% nel 2022, 2 degli oltre 13 miliardi di fatturato sono riconducibili ad articoli cosmetici dalla connotazione sostenibile. Le aziende hanno capito che il consumatore è sensibile a questa tipologia di prodotto e quindi hanno iniziato a proporre prodotti che rispondono a queste classificazioni».

La visione della bellezza è in qualche modo cambiata?

«La cosmetica esiste da 3mila anni, ma solo di recente i suoi prodotti sono divenuti beni irrinunciabili. Oggi si dà molta importanza non solo al sentirsi bene, ma anche allo star bene con il proprio aspetto. L’Italia ha una tradizione della cura della persona e della bellezza che fa sì che ci sia anche un produzione storica e raffinata, nonché un’eredità culturale non indifferente. Il consumatore va oltre il semplice uso quotidiano del cosmetico, è diventato più curioso: prova diverse tipologie di prodotto e sperimenta diversi canali di distribuzione.

A mio avviso non si tratta di un vero e proprio cambiamento, piuttosto di un ritorno al passato, che sarà poi anche il futuro. In termini di tendenze, sicuramente ci sarà una sempre più forte attenzione alla sicurezza e all’efficacia del cosmetico. I millennials, che sono ancora oggi i big spenders, sono una fascia di acquirenti molto più attenti al marchio o all’azienda, mentre la Z Generation, i nuovi e futuri consumatori, non sono interessati al concetto di brand ma focalizzano la loro attenzione sul prodotto e sulla sua  storia. Questa è una rivoluzione in atto e non potrà certo essere interrotta.

C’è un’altra fascia di acquirenti sempre più numerosa e importante: gli over 50. Interessati ai prodotti  cosmetici più costosi e alle migliori opzioni sul mercato. Questo perché hanno ormai un’attitudine consolidata e consapevole all’utilizzo».

L’uomo di oggi si interessa alla cosmetica più che in passato?

«In termini di valore il consumatore maschile mantiene storicamente una percentuale del 25% sugli acquirenti totali. Non c’è dunque una grande evoluzione in termini quantitativi, bensì nella varietà di prodotti acquistati. Mentre 15/20 anni fa l’uomo aveva quasi vergogna a usare una crema per il viso o un burrocacao, oggi ha ampliato la fascia di cosmetici che utilizza. Ma le donne continuano comunque a consumare più cosmetici e perciò  la percentuale resta invariata».

Come cambiano i consumi, ora che sta arrivando la stagione calda?

«Ovviamente ci sono delle stagionalità anche nella cosmetica. D’estate sicuramente crescono i prodotti per la protezione e la cura della pelle a discapito del make-up, che diventa più semplice e fresco. I prodotti leggeri, che siano legati allo skincare o al trucco, sono sicuramente quelli che vanno per la maggiore.

Ad esempio gli stessi profumi, che di norma sono legati alla fedeltà del consumatore, non è raro che con l’estate vengano sostituiti da altre fragranze. Ma tanto le imprese quanto i consumatori hanno imparato a destreggiarsi nei cambi stagionali e a individuare i cosmetici più consoni al periodo. Le stagionalità hanno certamente il loro effetto sul comparto, come su tanti altri settori d’altronde, la moda in primis. E anche noi ci adeguiamo».

In che modo inflazione e rincari stanno colpendo il settore?

«Nell’ultimo periodo, il fenomeno dell’aumento dei prezzi ha toccato rincari dell’8,2% circa. Per la bellezza, invece, gli aumenti si sono mantenuti sotto il 4%. Le imprese italiane e la catena di distribuzione cosmetica nazionale hanno assorbito i rincari, rinunciando alle marginalità per non impattare sul consumatore.

Una grande virtuosità del settore, che dimostra ancora una volta la  sua capacità imprenditoriale. Siamo un business anelastico e abbastanza insensibile alle crisi congiunturali, anche noi abbiamo risentito della crisi pandemica ma molto meno rispetto ad altre realtà,  abbiamo ammortizzato benissimo. Ed è proprio in virtù di queste caratteristiche di resilienza e reattività che dopo la pandemia la bellezza è stata il settore che è cresciuto di più».

Quali sono le sfide e le difficoltà maggiori?

«Dobbiamo continuare a essere competitivi nei mercati internazionali, questo è necessario. Anche perché l’offerta e l’export  italiano non sono agevolati come quelli di altri Paesi europei, che hanno condizioni di favore all’ingresso in altre Regioni. Anche questa è una virtù: l’Italia, nonostante l’inerzia delle istituzioni nel supportare adeguatamente il comparto, riesce comunque a essere e restare competitiva. Ma ci sono opportunità di guadagnare anche dalle sfide. Pensate che gli investimenti in ricerca e sviluppo di questo settore sono più del doppio di quelli dell’industria manifatturiera».   ©

Articolo tratto dal numero del 1 giugno 2023. Abbonati!

Credit: Canva.com

Dopo gli studi universitari in relazioni internazionali e un master in Communication & brand management inizia subito a lavorare nella moda a Milano. Scrive a tempo pieno per diverse testate occupandosi di business, moda, lusso e design. La conoscenza finanziaria maturata nell'editoria e l’occhio per le ultime tendenze sono i suoi punti di forza.