Precario, instabile o chiamatelo come volete, l’equilibrio economico dell’Eurozona non smette di oscillare. A pesare sulle previsioni del prossimo anno sono principalmente tre fattori: uno strutturale, ovvero la difficoltà a crescere del settore manifatturiero, uno politico, che equivale all’evoluzione della minaccia trumpiana di dazi sui nostri prodotti, uno geopolitico, che riguarda le conseguenze dei conflitti in atto per i rapporti commerciali e i prezzi dell’energia. In Italia la situazione è peggiorata rispetto alle previsioni di primavera e i nostri numeri risultano inferiori alla media UE.
Che cosa dicono i dati
«Se si guardano però i dati tra l’ultimo trimestre del 2022 e il secondo trimestre di quest’anno la velocità di crescita dell’Italia è più o meno uguale a quella dell’area dell’euro», dice Carlo Cottarelli, Direttore dell’Osservatorio sui Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e ideatore del Programma di Educazione per le Scienze Economiche e Sociali (Peses) che mette gli studenti delle scuole secondarie a confronto con protagonisti ed esperti della recente scena politica ed economica italiana.
«Più rapidamente di noi vanno Spagna e Portogallo».
Il nostro prodotto interno lordo è atteso in crescita dello 0,7% nel 2024, rispetto allo 0,9% stimato a metà maggio. E nel 2025 crescerà dell’1%, dall’1,1% precedente. E nel 2026? Dovrebbe salire dell’1,2%, performance potenzialmente peggiore tra i Paesi dell’euro (dati Commissione Europea). L’altro punto delicato è il debito, che nelle previsioni continuerà a essere zavorrato dal Superbonus – come sottolinea anche Moody’s: «prevediamo che il debito aumenterà al 139,7% nel 2024, dal 134,8% nel 2023, e continuerà a salire fino al 2027 fino a superare il 143%, poiché le attività fiscali differite create dal Superbonus continueranno a essere utilizzate negli anni a venire», dice una nota del’agenzia di rating americana. In disaccordo con le stime europee, che stimano un debito in crescita dal 136,6% del PIL nel 2024 al 138,2% nel 2025 e al 139,3% nel 2026.
«Nel periodo tra il 1999 e il 2019 noi siamo stati, insieme alla Grecia, il fanalino di coda dell’area. Soprattutto per gli effetti di alcuni momenti di crisi come nel 2011 e 2012, che ci hanno colpito molto più pesantemente di altri Paesi europei e che, a sua volta, riflettono errori fatti nei primi 10 anni in cui siamo entrati nell’euro. Poteva andare molto meglio. Ma, per errori nella gestione delle politiche economiche, si sono creati degli squilibri che poi si sono manifestati con la nostra perdita di competitività di prezzo».
Ci spieghi meglio
«Avevamo un buco nei conti con l’estero. Questa è un’altra dimensione di cui tener conto. Adesso non è più così, esportiamo più di quanto importiamo – il che è un dato positivo. Resta il problema del debito pubblico e ce lo tireremo dietro per tanto tempo. Il Governo però ha approvato un piano strutturale di bilancio settennale – in realtà quinquennale, ma con obiettivi fissati per 7 anni – in linea con le nuove regole sui conti pubblici europei che comportano una graduale lenta riduzione del rapporto tra debito pubblico e PIL».
Sembrerebbe una notizia positiva…
«Di per sé lo è: il rapporto tra debito pubblico e PIL, che adesso è del 135% e che quest’anno salirà intorno al 136%, nel 2031 è proiettato al 132%. Quindi scenderà pochissimo nei prossimi 7 anni. Ma il vantaggio è che grazie a un nuovo strumento introdotto nel 2022 dalla Banca Centrale Europea, se un Paese rispetta le regole europee sui conti pubblici e gli impegni del PNRR può ricevere il sostegno per mettersi a posto, anche se lentamente…».
Le stime sul PIL però si sono rivelate superiori a quello che in effetti poi è il risultato. È un dato che ha fatto allarmare Confindustria e Assolombarda: recentemente hanno affermato che servono misure differenti rispetto a quelle che stiamo portando avanti…
«Se andiamo a vedere le previsioni nel consuntivo per quest’anno fatte dal Fondo Monetario Internazionale, su 196 Paesi (che sono quasi tutti i Paesi del Mondo) ce ne sono 9 con una crescita negativa. Di questi, 4 sono nell’area dell’Euro: Estonia, Austria e Lituania e Finlandia. Noi siamo in un’area avanzata, quindi tendenzialmente cresciamo meno dei Paesi in via di sviluppo…».
Ma resta il fatto che cresciamo molto meno degli Stati Uniti, per esempio
«Sì, quest’anno loro stanno viaggiando su ritmi del 2-3% mentre l’area dell’euro è ferma all’1%. Bisogna fare qualcosa per l’Unione Europea ed è da qui che vengono le raccomandazioni del rapporto Draghi, del rapporto Letta e così via…».
Parlando di rapporto Italia-Europa, invece, un altro vulnus sono gli investimenti per la transizione digitale. Due dati: il PNRR ha stanziato circa 60 miliardi di euro per promuoverla, pari al 27% del budget totale del programma, per data center, AI, reti a banda larga… L’UE prevede un investimento di circa 180 milioni di euro come da programma Orizzonte Europa. La nostra situazione però è sempre in affanno
«Occorre un cambio di passo anche culturale sugli investimenti. Anche se cresciamo, questo non ci deve bastare. Servono investimenti pubblici: adesso ci stiamo mettendo più soldi di quelli dedicati fino al 2019 e il rapporto tra investimenti pubblici e PIL è aumentato dell’1%. Però bisogna vedere se sono investimenti buoni. Ma il vero problema è sempre stato rendere l’Italia un Paese dove è più facile fare attività di impresa, dove è più facile investire».
Gli industriali criticano le misure europee per il cammino verso la transizione Green
«Si può discutere se le regole europee siano eccessive o meno, però noi abbiamo tradizionalmente un problema di scarsi investimenti anche privati».
Quali sono i principali ostacoli agli investimenti in Italia?
«Se andiamo a vedere i sondaggi delle opinioni delle imprese, da anni ce ne sono tre sul podio: al primo posto il livello di tassazione, al secondo e al terzo posto ci sono due fattori che alternativamente avanzano e arretrano. Ovvero l’eccesso di burocrazia e la lentezza della giustizia».
Quest’ultimo è un deterrente anche per l’arrivo di capitali stranieri
«Se un’impresa viene a investire in Italia e qualcosa va storto ci vogliono almeno 8 anni per avere il giudizio finale. La volta successiva è ovvio che l’impresa non verrà più, le stime infatti sono negative per gli investimenti per i prossimi due anni. In questo momento poi c’è anche il fatto che il settore industriale tende a ridursi rispetto agli altri, ma io sollevo un problema più generale: è difficile fare attività di impresa in Italia».
A quali step fa riferimento?
«Alla tassazione: non ci sono grossi cambiamenti. La pressione fiscale complessiva rimane immutata. L’unica area dove c’è qualche progresso è la giustizia perché i processi stanno diventando un po’ più rapidi. Secondo gli obiettivi del PNRR noi abbiamo l’obbligo di ridurre del 40% la durata dei processi civili entro il 2026, non stiamo per ora andando proprio alla velocità giusta ma c’è un miglioramento tale da pensare che riusciremo a raggiungere questo obiettivo».
E poi?
«E poi in Manovra sarà confermato il taglio del cuneo fiscale, confermata la rimodulazione dell’IRPEF… sul lato della spesa, si mettono un po’ di soldi per i contratti pubblici, per la sanità. Sono cambiamenti abbastanza modesti. I Mercati li hanno presi positivamente e le agenzie di rating hanno cambiato il nostro outlook in meglio (S&P Global ha confermato il rating BBB con outlook stabile, Fitch ha mantenuto la tripla B, migliorando l’outlook a positivo e Dbrs Morningstar che ha confermato il rating BBB e ha alzato il trend a positivo da stabile.
Mentre Moody’s ha mantenuto il Baa3 e l’outlook stabile, ndr), perché c’è una legge di bilancio che comunque è in linea con le regole europee sui conti pubblici e, quindi, lascia aperta la possibilità all’Italia di avere la rete di protezione di cui parlavo prima, fornita dalla Banca Centrale Europea».
Guardando all’attualità, oggi i settori salute e difesa sono due asset con focus importanti
«Meloni ha detto che i finanziamenti del servizio sanitario nazionale sono i più alti della storia d’Italia. Il che è vero in un senso abbastanza ristretto, in termini di euro, però questo non vuol dire molto, perché 1 € del 2025 non è 1 € del 2019, c’è stata inflazione… Quando cresce l’economia e la gente paga più tasse si aspetterebbe anche un miglioramento sul lato della spesa. Si deve guardare in rapporto al PIL, cioè sul totale delle risorse disponibili.
Nel 2023 era effettivamente scesa al livello più basso dal 2004, il 6,2%, e quest’anno dovremmo risalire al 6,3, il prossimo anno dovremmo restare al 6,3% del PIL e l’anno dopo si dovrebbe andare al 6,4%. Come si confrontano questi numeri con gli altri Paesi? In Francia, Germania, Regno Unito stanno tra il 9, il 10 e l’11%. La sanità è un settore molto delicato perché i costi di produzione aumentano normalmente più dell’inflazione e questo giustifica un incremento della spesa sul PIL. Dovremmo portarla al 7%, ma dove prendere i soldi?».
Stoccata al Governo?
«Dirò una cosa in favore, invece. Per la prima volta in non so quanti anni, forse in decenni, quest’anno le entrate dello Stato sono cresciute più del previsto e il Governo ha deciso di risparmiarle, riducendo l’obiettivo di deficit pubblico. Noi quest’anno avevamo come obiettivo un deficit pubblico al 4,3% del PIL, finiamo al 3,7 e il prossimo anno questo tesoretto per la metà verrà risparmiato. Forse è anche questo che ha aiutato il giudizio favorevole che hanno dato i Mercati finanziari rispetto a questa Governo.
Se noi riuscissimo a crescere non dell’1% ma del 2% e risparmiassimo tutte le maggiori entrate che derivano da questa crescita – quindi senza tagliare niente – noi dopo 15 anni avremo un rapporto di debito pubblico-PIL che non sarebbe del 135% ma del 75%, senza austerità».
Prospettiva allettante soprattutto per i giovani: lei se ne occupa in Università, ma noi oggi viviamo un inverno demografico…quanto sta diventando essenziale investire in salute e in Silver economy?
«È una cosa buona investire in salute, come lo è farlo nella pubblica istruzione, nella natalità, nelle opere pubbliche e nella difesa…».
Investire in difesa ha connotazioni etiche importanti, però è un asset che sta crescendo molto
«L’obiettivo è raggiungere il 2% del PIL per tutti i Paesi della NATO, target fissato 10 anni fa: l’Italia è all’1,5% e non credo che con questa legge di bilancio cambino molto le cose. Il problema è che siamo tutti divisi e questo comporta enormi difficoltà. Coordinare 27 eserciti contro uno qualche problema lo crea… La principale conclusione che viene tratta sia dal rapporto Draghi sia dal rapporto Letta è che dobbiamo fare più cose insieme, altrimenti non avremo dimensioni tali da poter sfidare la superpotenza americana, cinese e fra poco anche indiana».
Restando in UE: l’Italia è stato il primo Paese a richiedere le ultime tranche di finanziamenti. «Prevediamo che la settima tranche (18,2 miliardi di euro) verrà richiesta prima della fine del 2024», Moody’s, che fa un affondo. «La spesa di queste risorse è stata inferiore alle aspettative e spendere tutti i fondi disponibili entro la fine del 2026 sarà una sfida…
«Qui abbiamo tanti soldi da gestire e dobbiamo trovare il modo per spenderli per i progetti legati al PNRR, ma la burocrazia è una macchina incredibilmente complicata. La questione di fondo per stabilizzare la nostra economia resta sempre la stessa: dove prendiamo i soldi? A debito non sembra una buona idea perché, appunto, ne abbiamo già uno abbastanza alto.
La pressione fiscale nel complesso è piuttosto elevata.Facciamo la revisione della spesa? Si può fare però c’è bisogno di cominciare almeno un anno prima di quando si vogliono vedere i risultati, non lo si può fare qualche giorno prima della legge di bilancio altrimenti si rischiano tagli non sistematici e a discrezione dei Ministeri».
A proposito di gestione delle risorse, lei è pro o contro i bonus?
«Bonus è un termine che ormai viene usato genericamente, per indicare un qualunque tipo di sovvenzione a una certa attività. Io eviterei di fare le cose spot, che valgono che soltanto un anno, perché fra l’altro si ottiene un impatto limitato. Quindi non è una misura per cambiare i comportamenti, ci vogliono provvedimenti stabili. Poi c’è stato l’errore del bonus 110%: se un incentivo è ben strutturato per certe attività va anche bene farlo. Ma le misure definitive sono migliori. Ad esempio il taglio del cuneo fiscale, se si protrae negli anni è decisamente meglio di un bonus. Credo che rendendolo strutturale ci sarà un impatto forte sulla potenziale competitività dell’Italia».
Prima citava l’India: dobbiamo temere la sua crescita?
«Il fondo monetario anche per il prossimo anno prevede un piccolo rallentamento nel tasso di crescita cinese e l’India invece continua a essere la locomotiva dell’Asia. Non c’è dubbio che il fatto che la Russia oggi abbia scambi di merci molto inferiori rispetto a prima della guerra con l’Europa e con i Paesi avanzati abbia alimentato il business con la Cina e con l’India. Il fattore geopolitico che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni è il ridursi del ruolo del G7 rispetto ai Brics: il PIL dei Brics è più grande di circa il 10% di quello del G7».
Parlava prima della necessità in Europa di essere più uniti: in Asia lo sono già, nella dedollarizzazione per esempio
«Non sono mai stato troppo preoccupato per la dedollarizzazione. Bisogna tenere presente che il Mondo occidentale ha avuto il predominio economico e anche politico degli ultimi due secoli per un motivo ben preciso: riusciva a innovare molto più rapidamente delle altre aree. Ma ora sta perdendo questa capacità: i segni di questa terza rivoluzione industriale sulla produttività non sono evidenti».
Si riferisce anche agli Stati Uniti?
«Sì, lì negli ultimi 25 anni il tasso di crescita medio della total Factor productivity – non legata al fatto che investi di più ma alla qualità delle tecniche che usi – è stato dello 0,4% all’anno. Nel periodo d’oro, seguito alla rivoluzione industriale a cavallo tra il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, era al 2%. Cosa conta? La demografia. Nei Paesi occidentali compreso il Giappone siamo 800 milioni di persone, nei Brics oltre 3 miliardi. Tra l’altro sull’intelligenza artificiale in Cina si sta investendo tanto rapidamente come negli Stati Uniti».
Anche nelle politiche Green con l’elettrico: per il nostro settore automotive è una minaccia?
«C’è un problema ovviamente di dipendenza e di concorrenza. Bisognerebbe cercare di sganciarsi da questa dominanza, ma siamo legati anche a molti Paesi per materie prime, energia etc…».
Dall’inizio dell’anno Bitcoin ha guadagnato oltre il 120%, sfiorando quota 100.000. Il tema Crypto è al centro del dibattito per un aumento della tassazione: come considera questo asset?
«Io non sono un fan delle Crypto. È un asset molto volatile, per cuori forti… Io non ci investo». ©