martedì, 16 Aprile 2024
Sommario
polli

L’influenza aviaria e il caro mangimi mettono a rischio i polli e fanno lievitare i prezzi. Il futuro di questi animali è sempre più incerto, mentre la soia e la carne bianca scarseggiano e costano sempre più. La carenza di polli ha le sue radici nella pandemia da Covid-19 e si aggrava con la guerra, raggiungendo il suo apice con la nuova influenza aviaria che sta colpendo gli animali di diverse parti del globo. Infatti, l’H5N1 si diffonde e non sempre la vaccinazione si rivela risolutiva. Il risultato è che molti esemplari periscono a causa del virus, provocando una reazione a catena che si ripercuote su diversi settori. La carenza fa salire il prezzo di uova e carni bianche, le più consumate. Infatti, ogni anno nel mondo vengono macellati 50 miliardi di polli.

I polli sono sempre di meno

Gli Stati Uniti sono tra i più colpiti dalla crisi, che si manifesta con particolare forza nel settore delle uova. Il costo di una confezione da 6 è schizzato infatti a più di 5 dollari. La situazione non migliora in UK. Il Regno Unito sta scontando l’aumento dei costi del grano, dovuto alla guerra in Ucraina, che ha provocato una crescita dei prezzi del mangime del 50%. Il nutrimento per polli e galline pesa per il 60-70% sui costi di allevamento. La scarsità e gli aumenti di prezzo stanno costringendo diverse aziende agricole e fattorie a ridimensionare gli allevamenti o chiudere l’attività.

Un problema che si somma a quello della sempre più diffusa influenza aviaria nel Regno Unito, tanto da spingere le autorità inglesi a vietare la vendita di carne e uova di galline e polli ruspanti. A pieno regime la produzione nazionale di pollame della Gran Bretagna riesce a coprire due terzi del fabbisogno nazionale, ma negli ultimi mesi la crescita delle importazioni di queste carni a basso costo dall’Unione Europea minacciano l’industria britannica. Il rischio è che la filiera possa collassare, provocando una significativa carenza di polli e uova, avverte il British Poultry Council. Per sventare il pericolo, gli agricoltori chiedono un aumento di 40 pence per dozzina di uova.

inflazione

L’Unione Europea naviga in acque altrettanto agitate. Nel 2022 la produzione avicola è scesa dell’1% rispetto all’anno precedente e quest’anno calerà di un altro 0,4%, secondo le ultime stime Commissione Europea. I Paesi colpiti con maggiore forza sono Italia, Francia e Ungheria, dove la produzione è scesa dell’11%. Per porre un argine, la stessa Europa ha dato il via libera all’importazione e allo scambio di beni e animali provenienti da Paesi in cui si vaccinano contro il virus H521. Cade così un tabù e assistiamo a un’armonizzazione delle regole sulla vaccinazione dei polli.

Il virus dà tregua all’Italia

Spostando l’attenzione sul nostro Paese, oggi il peggio sembra essere alle spalle, dopo che nei primi due mesi del 2022 si è registrato un calo del 50% della produzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il virus sembra aver allentato la sua morsa sugli allevamenti italiani, spostandosi verso il Nord Europa. L’Italia è il quinto Paese europeo per produzione, con un milione e 380mila tonnellate all’anno. Carne e uova da sole raggiungono un fatturato di 3,5 miliardi di euro, l’8% dell’intero settore agroalimentare. Senza contare il comparto della trasformazione dei prodotti avicoli, che vale oltre 6 miliardi di euro. Per comprendere la centralità di questi alimenti basta pensare che le carni, in generale, coprono il 12,5% del fatturato legato all’agricoltura, secondo gli ultimi dati dell’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA).

Il 70% dei consumatori italiani mangia pollo almeno una volta a settimana. Parliamo quindi di un settore strategico, a maggior ragione perché è dei pochi segmenti del settore nei quali possiamo vantare livelli importanti di autosufficienza nella produzione interna. Un risultato raggiunto grazie a una struttura efficiente e resiliente, fortemente integrata nelle sue diverse fasi, dalla produzione alla trasformazione. Punti di forza messi a dura prova dagli episodi di influenza aviaria che hanno interessato le aree produttive più importanti del Paese, a partire da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

uova

La filiera avicola si riprende

Una situazione che ha determinato un calo significativo della produzione, scesa del 12% rispetto al 2021 al livello più basso degli ultimi dieci anni. Le ragioni principali sono l’aumento dei costi di produzione, legati all’impennata dei prezzi dei mangimi, e la diffusione del virus. Allo stesso tempo, la domanda interna è rimasta stabile (-0,2% consumi e +18% spesa), provocando una rapida e sensibile crescita dei listini, secondo l’ultimo rapporto di ISMEA. Un aumento che ha favorito l’incremento delle importazioni e la diminuzione delle esportazioni (-24% sul 2021). Il tutto ha contribuito al peggioramento del saldo della bilancia commerciale, per la prima volta in negativo di 15,5 milioni di euro. Nel 2023 lo scenario sembra più positivo, ma l’attenzione rimane alta. I costi di produzione continueranno a mantenersi su livelli importanti, secondo le previsioni di Ismea.

Ma quest’anno i prezzi di polli e tacchini sono più bassi del 22,8% e del 13,2% rispetto al 2022. La spesa di carni avicole nel primo bimestre del 2023 è cresciuta del 24% rispetto allo stesso periodo del 2021. Lo stesso vale per la domanda al consumo, che ha fatto registrare un +12% rispetto ai volumi del primo bimestre del 2022. E c’è già chi punta a far diventare l’Italia leader per efficienza, approvvigionamento, formulazione dei mangimi, biosicurezza e flessibilità per aiutare la filiera a risollevarsi. Ma «nel 2022 le carni avicole hanno visto un calo produttivo del 9,1%. Le uova invece sono scese del 2,5%. Il calo più drastico, per quanto riguarda le carni, si è visto per il tacchino. Il pollo, invece, ha fatto registrare una diminuzione del 4,66%, il tacchino invece è sceso del 26,5%», spiega Laura Facchetti, consigliere di Coldiretti Brescia.

coldiretti

Quali sono le ragioni?

«Questo calo è dovuto all’influenza aviaria che ci ha colpito all’inizio del 2022. Il primo caso si è registrato a fine ottobre e fino a marzo c’è stato un blocco degli accasamenti. A gennaio e febbraio c’è stata una diminuzione del 50% della produzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Poi il sistema ha trovato un equilibrio, tanto che a giugno e luglio eravamo già in linea con gli altri anni. Invece, per quanto riguarda il tacchino, ci sono stati subito nuovi divieti di accasamento.

Le restrizioni non hanno permesso agli allevatori di lavorare a pieno regime, una situazione che si è protratta fino ai primi mesi del 2023. La mancanza di produzione è dovuta in parte a questo stop importante. Adesso il tacchino ha nuovamente ottenuto il via libera e nei prossimi mesi prevediamo di tornare a regime anche in questo settore. Quanto invece alle uova e alla carne bianca in generale, ci sono molti casi di influenza aviaria, fortunatamente non più da noi, ma in centro e nord Europa. Se per la carne siamo più autosufficienti, per le uova invece importiamo di più. L’import è calato leggermente, ma la situazione è abbastanza tranquilla».

A che punto sono le vaccinazioni dei polli?

«La Francia è il Paese più colpito dall’influenza e saranno i primi a partire con le vaccinazioni. All’estero ci sono varie sperimentazioni in corso su oche e anatre, in Italia invece sul tacchino. Ci sono però limiti da superare, dovremmo fare moltissimi controlli in più, non è facile applicare questa vaccinazione. La buona notizia è che sembra che il vaccino funzioni. È lo stesso virus che circola da un anno e mezzo, non è mai successo. Ora sembra stia mutando e sia meno pericoloso per gli animali».

Quanto pesa la scarsità dei mangimi?

«Fino a qualche mese fa trovare materia prima era un problema.Oggi preoccupano i prezzi molto più alti rispetto a un anno e mezzo fa. Purtroppo siamo molti legati alla soia, il mangime che subisce più rincari, che non accennano a fermarsi. Ma per alimentare i polli abbiamo bisogno delle proteine contenute nella soia. Per fortuna, in questo periodo il prezzo del pollo è abbastanza remunerativo, quindi riusciamo a coprire i costi, ma è un discorso più legato a contingenze di mercato: carenza di offerta e alta domanda. Una situazione che permette agli allevatori di avere maggior potere di contrattazione con la grande distribuzione, ma che non sappiamo quanto potrà durare».

L’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha tentato di porre un freno alle violenze ai danni dei polli. Le raccomandazioni che mirano a migliorare il benessere animale rischiano, però, di avere importanti ricadute negative sulla filiera. Diversi allevatori italiani chiedono di modificare le indicazioni in merito agli spazi vitali per il pollame, pena un raddoppio del prezzo della carne bianca Made in Europe. Come conciliare benessere animale e forte domanda?

polli allevamenti

«Le raccomandazioni dell’Autorità europea partono da principi che non sono sostenibili per le aziende. Gli animali dovrebbero essere 11 al metro quadro invece di 33, essere allevati all’aperto e tanto altro. Non si può pensare che un parere che parte da una realtà che non esiste possa essere la base per un sistema economico. In questo modo, infatti, il pollo costerebbe più del caviale. Inoltre, non sono così convinta che non ci sia una via di mezzo tra le condizioni attuali di questi animali e le raccomandazioni europee. È un parere che ci ha lasciato senza parole».

Quale tipologia di allevamento impatta meno sull’ambiente?

«L’allevamento intensivo di prodotto convenzionale impatta meno sull’ambiente rispetto a un pollo a lenta crescita, che consuma di più e impiega più suolo. Infatti, nel primo caso hai tutti i parametri ambientali sotto controllo, hai una grande resa nel minor tempo possibile. Al di là di quello che si dice, l’imprinting ambientale degli allevamenti intensivi è minore. Poi c’è tutto l’aspetto del benessere, ma questa tipologia di per sé non ha ricadute negative sulla qualità della vita degli animali. Il benessere del capo dipende dalle scelte dell’allevatore su densità, presenza di luce naturale e qualità del cibo. È importante prestare attenzione alle regole per evitare di perdere credibilità a causa di disattenzioni e piccoli errori, come dimostra il caso dello stabilimento bio di Fileni».

Infatti, gli allevamenti industriali di polli bio non sfuggono ai problemi che affliggono le infrastrutture tradizionali, primo fra tutti l’inquinamento atmosferico. Il problema risiede in un modello produttivo che continua ad essere basato sulla minimizzazione dei costi, alla continua ricerca del low cost di qualità. Emblematico è proprio il caso dello stabilimento di Fileni in costruzione in Provincia di Rimini, messo in luce da una recente inchiesta di Altreconomia. L’impianto emetterà tra i 12.936 e i 14.091 chilogrammi all’anno di ammoniaca e circa 2.816 chilogrammi annui di metano.

polli

«Le emissioni di NH3 contribuiscono alla formazione di PM2.5, il principale inquinante atmosferico che causa morti premature negli Stati membri dell’Unione europea. La riduzione delle emissioni di NH3 è fondamentale per raggiungere gli obiettivi di inquinamento zero, ovvero ridurre del 55% il numero di morti premature causate dall’inquinamento atmosferico e del 25% gli ecosistemi dell’Ue in cui l’inquinamento atmosferico minaccia la biodiversità», si legge nel National emission reduction commitments directive reporting status 2022 dell’Agenzia europea per l’ambiente.

In Italia, le polveri sottili con dimensioni minori o pari a 2,5 micron (PM 2.5) sono responsabili di 50.000 morti premature ogni anno, motivo per il quale dobbiamo ridurre le emissioni del 2% entro il 2030, stando all’Agenzia. Per quanto riguarda invece il metano, ha un potenziale climalterante di circa 20 volte quello dell’anidride carbonica. Analizzando la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) emerge che nello stabilimento cresceranno mezzo milione di polli. Gli impianti produrranno 2.022 tonnellate di carne bianca, pari al 10% in più rispetto all’attuale capacità produttiva nazionale di polli bio.

Quanto è sostenibile la carne?

«Si parla molto dell’impatto ambientale della carne, ma è davvero così alto? Se comprassimo qualche vestito o cellulare in meno non sarebbe forse un modo migliore di ridurre l’inquinamento? A volte si mette alla gogna un prodotto essenziale per la nostra crescita e non pensiamo a tutti quei settori di beni secondari che hanno un’impronta ambientale più importante. Secondo me, se analizzassimo, ad esempio da dove e come arriva la soia, che i vegetariani usano per sostituire le carni animali, la bilancia dell’inquinamento peserebbe maggiormente da quella parte». L’Associazione Nazionale Allevatori e Produttori Avicunicoli (ASSOAVI) chiede al Governo di avviare una campagna istituzionale per promuovere il prodotto avicolo italiano.

mangimi

Come detto in precedenza, polli e galline sono le carni più consumate sulla terra. Immaginare che la scarsità di questi prodotti alimentari possa spingere i consumatori verso carni differenti è difficile, per un semplice ma fondamentale motivo: il costo. I polli sono infatti molto più economici rispetto ad altri animali. È, al contrario, più probabile che le fasce meno abbienti siano costrette a privarsi della carne. Oggi in media mangiamo 4,5 kg in più rispetto al 2000, 13,6 kg a testa. Ma quale alimento potrebbe sostituirla? ©

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