Dove vanno a finire i lingotti di Mosca? Da quando i Paesi del G7 hanno imposto sanzioni contro l’oro russo nel marzo del 2022, è molto complicato scoprirlo. Prima della guerra il Paese era il secondo produttore al mondo, ora però il grosso delle sue estrazioni passa attraverso piccole società poco tracciabili, ad Hong Kong e negli Emirati Arabi Uniti. Quello che non esce si accumula nelle riserve della Banca Centrale russa o in quelle dei cittadini, che allo scoppio del conflitto con l’Ucraina hanno cominciato ad acquistare monete e lingotti d’oro per proteggersi dalle conseguenze economiche delle sanzioni.
Nel frattempo, sui mercati internazionali il prezzo del metallo è in salita. Spinto dal periodo inflazionistico, che come sempre accaduto spinge i risparmiatori ad acquistare beni rifugio, ha raggiunto e superato stabilmente i 1800 euro l’oncia, una cifra record a livello nominale, pareggiata soltanto un anno fa, proprio allo scoppio della guerra.
Il secondo produttore di oro al mondo
La Russia è il secondo produttore di oro al mondo. Di solito non si pensa a Mosca quando si parla di estrazione del metallo prezioso, visto che la materia prima più associata al Paese è il gas, ma la sua posizione nel mercato aureo è più che significativa.
Prima della guerra, e delle sanzioni che l’hanno duramente colpita, la Russia produceva il 10% dell’oro globale, circa 300 tonnellate all’anno, giocandosi la seconda posizione con l’Australia, dietro alla Cina. Con la quotazione di allora, si trattava di 15 miliardi di euro di valore prodotti ogni anno. Solamente un quinto della produzione era destinata al mercato interno, mentre il resto veniva esportato all’estero. Il valore di mercato dei lingotti russi rappresentava l’1,5% del PIL della nazione, ma l’estrazione e la produzione aurea non erano importanti soltanto a livello domestico.
La vendita di oro, in modo simile al gas, era uno dei legami che la Russia era riuscita a mantenere con i membri del G7. Il 90% dei 19,1 miliardi di dollari che Mosca ricavava dall’esportazione di lingotti derivava proprio dai Paesi occidentali, con il Regno Unito su tutti. La ragione principale era la domanda molto alta, spinta dalle grandi banche della City di Londra, che si approvvigionavano di lingotti da Mosca. Prima della guerra quasi il 30% delle importazioni britanniche di oro proveniva dalla Russia. La decisione dei Paesi del G7 di tagliare fuori Mosca dal mercato aureo in conseguenza all’invasione dell’Ucraina ha però posto fine a questo legame.
Il problema delle sanzioni
La Russia si trova così a dover affrontare un problema molto rilevante. Una delle sue esportazioni più significative dopo quelle energetiche è stata quasi completamente annullata. Circa 18 miliardi di dollari all’anno volatilizzati in una sola decisione del G7 nel giugno del 2022. Cosa fare con le tonnellate di oro che non potranno più essere vendute sui mercati internazionali a causa delle sanzioni? Fortunamente per la Russia, la stessa invasione dell’Ucraina che è causa di questo problema ha generato due situazioni che ne alleviano le conseguenze.
Tra le sanzioni imposte dai Paesi occidentali per rallentare l’economia di Mosca e aiutare Kyiv nella resistenza, c’è anche l’esclusione del Paese dalla SWIFT, la Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication. Conseguenza diretta di questa misura è la difficoltà di Mosca nel reperire valuta estera, con la quale dovrebbe pagare parte del proprio debito sovrano. La Banca Centrale Russa diventa quindi uno dei principali acquirenti dell’oro prodotto dal Paese, e le sue riserve, che già superavano in valore quelle in valuta estera dal 2021, si riempiono in fretta. Un balzo di quasi due milioni di once, che l’ha portata nella prima metà del 2023 ad assestarsi appena al di sotto dei 75 milioni di once totali.
Il mercato interno
Ma oltre alla banca centrale, uno sfogo parziale per l’oro russo è arrivato dal mercato interno. I russi si sono improvvisamente scoperti appassionati del metallo prezioso sotto forma di monete e soprattutto di piccoli lingotti, più maneggiabili di quelli acquistati dalle banche per le loro riserve. La domanda interna per questi prodotti è salita nel 2022 a oltre 20 tonnellate, contro le nemmeno 5 dell’anno precedente. Questo picco è stato favorito proprio dalla guerra in Ucraina, dalle conseguenti sanzioni, e dall’estrema volatilità del rublo, che ha spaventato i risparmiatori.
Normalmente, come bene rifugio, i russi preferiscono la valuta estera. Questa domanda si è scontrata da una parte con la mancanza di offerta, dovuta ancora una volta all’espulsione del Paese dalla SWIFT, e dall’altra con una intensa campagna mediatica del Governo contro la moneta americana, che dipingeva il biglietto verde come problematico e instabile. L’ultimo pezzo del puzzle è stato la rimozione dell’imposta sul valore aggiunto alla vendita d’oro, che ha dato il via a un periodo di febbre sul mercato interno russo.
Nel mese di marzo le banche, uniche rivenditrici autorizzate di lingotti, sono state prese d’assalto. Alcuni istituti hanno dichiarato di aver quasi esaurito le proprie scorte dei lingottini, con vendite fino all’80% delle riserve. Nel frattempo siti di compravendita di usato sull’internet nazionale si riempivano di annunci illegali di privati disposti a separarsi dal proprio oro per prezzi esorbitanti. La situazione è arrivata al punto che la stessa Banca Centrale, il 15 del mese, ha interrotto la campagna di acquisto di oro. Era iniziata solo pochi giorni prima, ed è poi stata ripresa 10 giorni dopo, per un acquisto totale di due milioni di once (più di 56 mila chilogrammi).
L’impossibilità di scambiare lingotti tra privati ha fermato il mercato, e ora il rischio è quello dell’erosione del valore dell’oro circolato in questo modo. Molti russi infatti lo conservano in casa, inconsapevoli del fatto che anche soltanto un piccolo graffio può inficiarne gravemente il valore.
Le vie dell’oro per eludere le sanzioni
Quali altre vie segue l’oro russo bloccato (teoricamente) in patria dalle sanzioni occidentali? 20 tonnellate sono comunque poco più del 6,6% della produzione annua di oro che la Russia poteva vantare prima dell’inizio della guerra. Mancano all’appello ancora tutte le esportazioni che prima erano dirette verso i Paesi del G7 e che ora non hanno più sfogo nei canali tradizionali. Dove è finito tutto l’oro russo che transitava sui mercati internazionali fino al 2021? Inizialmente, la risposta a questo quesito era semplice: è rimasto dov’era.
A un mese dall’inizio della guerra, proprio mentre il mercato interno esplodeva, in Russia erano intrappolate 2.300 tonnellate d’oro, per un valore di mercato di 140 miliardi di dollari. Risorse di cui il Paese aveva drammaticamente bisogno, in un momento critico per l’economia, tra sanzioni e costi dello sforzo militare in Ucraina. Con il passare dei mesi, però, si sono aperti altri canali in direzione di chi ha tenuto una posizione ambigua nei confronti dell’aggressione russa al territorio ucraino, come Cina e Turchia. Ma il Paese chiave per dare sfogo, almeno parzialmente, alla produzione aurea intrappolata nei confini russi sono gli Emirati Arabi Uniti.
Stando ad alcuni documenti consultati da Reuters, lo Stato del Golfo ha importato 75,7 tonnellate di oro russo, per un valore di 4,3 miliardi di dollari, tra febbraio del 2022 e marzo 2023. Un aumento netto rispetto alle 1,3 tonnellate del 2021, che non può certo essere dovuto a una improvvisa febbre dell’oro negli emirati. Il piccolo stato avrebbe funzionato quindi da centro di smistamento verso i due veri grandi acquirenti dei lingotti di Mosca: appunto le sopracitate Cina e Turchia.
La strada svizzera
E l’oro russo potrebbe aver trovato anche un’altra strada, seppur stretta, che gli ha permesso di arrivare nel cuore d’Europa. Le sanzioni dell’UE impongono alle società con sede nel Vecchio Continente e alle loro sussidiarie estere di non scambiare lingotti provenienti da Mosca. Rompendo la sua tradizione di neutralità, la Svizzera ha applicato una misura simile, ma non identica. Le sussidiarie estere delle società con sede nel Paese non sono infatti sottoposte a questa sanzione.
Rimane però il fatto che il secondo produttore di oro al mondo è stato estromesso dai mercati internazionali e l’effetto sul prezzo del metallo è stato quindi inevitabile. Difficile però quantificarlo, perché proprio mentre i lingotti russi uscivano di scena, si scatenava una nuova corsa all’oro. Due fattori concomitanti hanno spinto la domanda a livelli record. Il primo è il più classico: l’inflazione. Quando il potere d’acquisto delle valute viene eroso dall’aumento dei prezzi, i beni rifugio tornano protagonisti.
L’oro è quindi nuovamente al centro dei pensieri di molti investitori privati che cercano, non dissimilmente da quello che hanno fatto i cittadini russi a marzo del 2022, di conservare la propria ricchezza proteggendola da un futuro incerto. Non aiuta lo scenario internazionale destabilizzato dalla guerra in Ucraina. La nuova polarizzazione del mondo ha messo in dubbio l’interconnessione già interrotta durante il Covid-19.
Il nuovo ruolo internazionale dell’oro
Eppure, proprio le sanzioni imposte da Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito a Mosca hanno messo in luce l’importantissimo ruolo geopolitico delle valute forti come dollaro, euro e sterlina. La capacità dei Paesi che ne controllano l’emissione di congelare molti asset valutati tramite la moneta ha fatto percepire a molte nazioni emergenti la loro vulnerabilità nei confronti di tali operazioni. È così cominciata una corsa alla diversificazione, che ha inevitabilmente trovato nell’oro il proprio sbocco principale.
Alcune nazioni stanno approfittando del loro status di estrattori di oro per migliorare la propria situazione economica. Il Ghana ha recentemente comprato petrolio scambiandolo con lingotti d’oro. Lo Zimbabwe ha lanciato una valuta digitale legata alle proprie riserve auree, come ai tempi del gold standard.
Ma ad approfittare della situazione più di chiunque altro è il primo produttore mondiale: la Cina. Questa fuga delle economie emergenti dal dollaro è vista da Pechino come un’occasione per provare a realizzare uno dei suoi progetti a lungo termine più ambiziosi: l’internazionalizzazione della propria moneta, il renminbi (o yuan), a discapito del ruolo di quella statunitense. L’accordo firmato da Xi Jinping con l’Arabia Saudita a dicembre per un’importante fornitura di petrolio e gas pagato in valuta cinese si basa proprio sulla convertibilità in oro.
Il colpo di grazia lo hanno dato i fallimenti delle banche regionali americane e quello di Crédit Suisse, che hanno mostrato un’ulteriore instabilità del sistema finanziario. L’oro, per parte sua, diventa ancora una volta misura della paure e dell’incertezza dei mercati. ©
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