sabato, 27 Aprile 2024

Cresce la domanda di nucleare: i nuovi scenari dell’energia

Sommario
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Lo scacchiere internazionale dell’energia è in continuo mutamento, mentre Cina, Russia e Stati Uniti si contendono il potere economico e tecnologico del mondo. L’Italia, intanto, punta sul grande potenziale Green dell’Africa. Quale ruolo potrà giocare il nostro Paese? «Il Piano Mattei recentemente approvato in Parlamento con l’obiettivo di potenziare la collaborazione tra l’Italia e gli Stati africani dovrebbe favorire in particolare la collaborazione nel campo dell’energia. Tuttavia, è il caso di ricordare che Enrico Mattei, il fondatore di Eni, aveva ben chiaro che l’Africa fosse il nuovo campo di battaglia fra Est e Ovest, e che l’Occidente avrebbe perso il confronto se non avesse agito con estrema intelligenza nei confronti dei Paesi africani», spiega Adriana Castagnoli, storica ed economista, autrice del libro Terre di mezzo: Guerre, imperi, energia e il futuro delle democrazie, edito da Il Sole 24 Ore.

«La transizione verde richiede lo spostamento di enormi capitali dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Poiché la maggior parte delle Banche di sviluppo esclude l’energia nucleare e idroelettrica, in gran parte a causa delle obiezioni di natura ambientale delle nazioni donatrici, il finanziamento delle Banche multilaterali oggi limita di fatto le aspirazioni di sviluppo dei Paesi più poveri per le energie rinnovabili».

Cosa comporta la scarsità di finanziamenti?

«La maggior parte degli investimenti internazionali a favore dei progetti nucleari proviene dalle Banche statali di Russia e Cina, il che ha reso le loro aziende i principali fornitori di questa tecnologia ai Paesi di medio e basso reddito. L’urgenza di ridurre le emissioni di gas serra, la guerra in Ucraina e l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas hanno portato a un aumento della domanda globale di energia nucleare. Francia, Paesi Bassi e Regno Unito hanno annunciato programmi per la costruzione di nuove centrali, opzione che sta valutando anche la Svezia, mentre l’Unione europea ha ammesso che può essere qualificata come energia verde.

Negli USA, il governo federale sta considerando nuovi finanziamenti e gli investimenti privati sono in aumento. Quali siano le differenze di opportunità verde fra i Paesi ricchi e gli altri emerge dal fatto che, negli anni scorsi, il 76% dei finanziamenti per il clima è stato raccolto a livello nazionale in Asia orientale e Pacifico (dominato dalla Cina), Nord America ed Europa occidentale. L’Asia centrale e l’Europa orientale, invece, hanno attinto a finanziamenti nazionali e internazionali».

L’accordo raggiunto nella COP28 favorirà l’aumento degli investimenti da parte della finanza nella decarbonizzazione e nell’energia green?

«I colloqui sul clima della Cop28 a Dubai si sono conclusi, più che con un risultato storico, con un compromesso. Anche se va riconosciuto che per la prima volta i Paesi sottoscrittori hanno assunto un impegno a ridurre tutti i combustibili fossili entro il 2050. In pratica, la formula “transitare fuori dai combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico” è elusiva quanto basta per soddisfare anche i produttori di petrolio».

Quali sono le contraddizioni geo economiche dell’energia verde, tema che occupa un capitolo del suo libro?

«Finché i Governi continueranno a fare affidamento su petrolio e gas per non restare indietro, le dinamiche geoeconomiche generate dal loro uso coesisteranno con quelle innescate dalla transizione Green e dall’energia verde. La Russia è un petrostato e la supremazia nei Mercati mondiali dell’energia ne ha largamente determinato l’influenza geopolitica e modellato l’identità nazionale. Vladimir Putin ha individuato in questo un fattore cruciale di dominio politico. Problemi come il cambiamento climatico, che possono creare sinergie fra USA e Cina, si intersecano con la rivalità delle due superpotenze. Biden ha stanziato miliardi di dollari in investimenti per favorire il disaccoppiamento dallo Stato asiatico e la transizione verde dell’economia americana.

Mosca è il più grande fornitore di petrolio, gas e carbone della Cina. Tuttavia, Pechino ne acquista dal Medio Oriente e ha stretto una partnership economica di 25 anni con l’Iran. La cooperazione economica sino-russa e il protagonismo di piccoli e medi Stati, molti dei quali produttori di petrolio (come Arabia Saudita, Emirati Arabi etc.), mostrano quanto l’energia sia un fattore di perturbazione nei rapporti internazionali. La UE con il piano REPowerEU ha puntato in particolare sulla produzione di idrogeno rinnovabile, sia interna sia di importazione dall’Africa, ma per farlo l’energia eolica e solare sembrano insufficienti. Si è aperta la discussione se produrlo o meno anche con energia nucleare. USA e Cina stanno sviluppando nuove tecnologie per reattori nucleari, su cui le Banche internazionali per lo sviluppo sono riluttanti a investire».

Che ruolo avrà davvero la Cina nella transizione dell’energia?

«Le sue imprese sono centrali nelle catene di approvvigionamento per le energie rinnovabili, fornendo componenti critici per progetti eolici, solari e di stoccaggio dell’energia. La posizione dominante del Paese ha fatto scattare un campanello d’allarme negli USA e nell’UE. La Cina ha ricevuto un’accoglienza più calorosa in gran parte del Sud del mondo, in particolare in Medio Oriente. Le aziende e i capitali cinesi sono diventati investitori e sviluppatori di progetti, costruendo legami economici più profondi. Questo è particolarmente visibile nel Golfo, dove le imprese statali hanno stretto partnership con le controparti cinesi per progetti rinnovabili su larga scala in Asia e Africa.

Perfino il recente impegno di Pechino per ristabilire rapporti diplomatici tra Riyad e Teheran, lodato dall’ONU, è stato apprezzato dai Paesi mediorientali, direttamente interessati dagli sviluppi della situazione. La Cina è sempre più leader climatico, anche se sinora i politici cinesi hanno favorito il modello di sviluppo con centrali a carbone. Ha tuttora il maggior consumo annuale di energia e emissioni di gas serra al mondo, ma alla COP28 si è smarcata dai Brics guidati dalle petropotenze e ha riaperto il dialogo con gli USA».

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La guerra in Ucraina ha origine dalla stesse spinte imperialiste che hanno portato alle guerre mondiali?

«L’impero non è solo un particolare modello di struttura politica, ma anche una narrazione fondata sulla pratica della conquista. L’estensione territoriale di un impero, definita dalla subordinazione a un’autorità centrale, è mutevole perché guidata da una logica di espansione continua che nel XXI secolo trova limiti negli Stati-nazione. Le periferie imperiali di un tempo, come l’Ucraina o l’Afghanistan o l’Iraq, sono divenute luoghi di contestazione. Il dominio economico e le interferenze di Mosca hanno pesato sui Paesi ai confini con la Russia.

L’Ucraina ha oscillato fra le due fazioni, fino alle proteste di Euromaidan che hanno imposto la rottura con Mosca e richiesto un accordo con l’UE. Nella questione del confine orientale dell’Europa ci sono in gioco enormi interessi economici per l’abbondanza di risorse minerarie strategiche (gas, titanio, terre rare, etc.) nell’Est del Paese. La terza guerra mondiale? È dalla fine della seconda in Europa che si combatte nelle altre regioni del mondo. Adesso è solo geograficamente più vicina e inasprita da enormi squilibri demografici».

La situazione tra Istraele e Palestina si può davvero concludere con una guerra?

«Una soluzione per il futuro di Gaza deve essere inquadrata all’interno della più ampia questione dei palestinesi sotto il controllo israeliano, partendo dal presupposto che la soluzione dei due Stati sia la più equa e meno brutale, secondo gli esperti. Ma in Israele, il sostegno per un simile accordo di pace dopo il 7 ottobre si è molto ridotto. Intanto, Hamas ribadisce che l’obiettivo è l’annientamento e la cancellazione di Israele. Inoltre, c’è la realtà demografica. Il numero di arabi palestinesi nelle aree sotto il controllo di Israele è superiore agli ebrei israeliani all’interno di Israele e dei territori occupati.

Intanto, Egitto e Giordania si rifiutano di aprire i loro confini ai palestinesi. D’altronde, i leader occidentali e l’ONU hanno contribuito a questa situazione. La Striscia di Gaza fu plasmata dai traumi cruciali del 1948. Prima ci fu il fallimento del piano di spartizione dell’ONU, che, sebbene accolto con favore dalla leadership sionista, fu respinto dai nazionalisti palestinesi e dagli Stati arabi, instaurando un conflitto armato tra ebrei e arabi.

Nel gennaio 1949, gli israeliani non solo avevano sconfitto gli eserciti arabi, ma avevano anche cacciato circa 750.000 palestinesi dalle loro case, in quella che divenne nota come la nakba, o catastrofe. Adesso è il tempo per una risoluzione decisiva da parte degli USA e dei partner internazionali per imporre i due Stati. Purché fra i palestinesi emerga una leadership politica credibile, legittima e unita per portare avanti un duraturo processo di pace. Ma attori importanti come Iran e Russia hanno interesse a prolungare e allargare il conflitto per trarre vantaggio dall’aumento dei prezzi dell’energia conseguenti alle difficoltà logistiche create dagli Houthi nel Mar Rosso».

Cos’è la “geopolitica del risentimento” che ha animato l’azione di Putin e la visione di Xi Jinping, come scrive nel suo libro?

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«Sono molteplici i casi di politici che mobilitano i seguaci attorno alla percezione che la dignità del gruppo-nazione sia stata offesa, disprezzata o trascurata. Per quanto l’interesse personale materiale sia importante, gli esseri umani sono spinti anche da altre motivazioni. II politologo Francis Fukuyama afferma che la politica del risentimento muove gruppi che si ritengono a torto o ragione umiliati e che nelle identità e appartenenze tribali cercano più dignità. Le Nazioni non sono entità biologiche che esistono da tempo immemorabile, ma sono qualcosa che viene costruito a livello politico. Il mondo attuale si sta muovendo in direzione di due opposte distopie: l’ipercentralizzazione e la frammentazione infinita. La politica del risentimento ha animato in modi e per aspetti diversi tanto l’azione di Vladimir Putin dopo il crollo dell’URSS, quanto la visione di Xi Jinping.

Quando il leader russo nel 2005 definì la scomparsa dell’Unione Sovietica il maggior disastro geopolitico. Ambiva a ristabilire lo status di grande potenza e Stato-civiltà del Paese, decretando la fine dell’ordine internazionale liberale. Xi Jinping ha fatto propria la narrazione nazionalista che imputa alle guerre dell’oppio di metà Ottocento l’imposizione di cento anni di umiliazione alla Cina. Vuole far rientrare Pechino nella posizione di grande potenza che le spetta. ll concetto di civiltà è così tornato a infiammare la politica globale. I leader di potenze emergenti, o di ritorno, come Russia, Cina, India, Iran, Turchia hanno tutti enfatizzato l’identità dei loro Stati in quanto civiltà distinte dall’Occidente. Enfasi identitaria che ha contrassegnato anche la narrazione politica del presidente americano Donald Trump, con il suo Make America Great Again».

Parlando di sovranità, come è messa l’Italia dal punto di vista di quella tecnologica?

«Il problema della sovranità tecnologica in Italia è stato affrontato dai diversi Governi per lo più in modo difensivo (per esempio, per bloccare acquisizioni cinesi). Ma comporta innanzitutto enormi investimenti per assicurare lo sviluppo di innovazioni cruciali. In questo, il nostro Paese occupa una posizione debole. Parliamo dell’arco di volta della distribuzione internazionale del potere. Riducendo la propria dipendenza economica dagli altri e aumentando la dipendenza dei concorrenti, si creano asimmetrie nelle relazioni economiche, utilizzate per rafforzare il proprio potere politico. Lo Stato è fondamentale nella creazione di un sistema di sviluppo tecnologico che risponda sia alla domanda interna di riorganizzazione della società sia alle sfide esterne. Il controllo sui Mercati internazionali è cruciale per il potere.

La Cina è emersa in questi anni come la principale sfidante degli USA. Potenza egemone per determinazione ad affermare la leadership tecnologica, controllo sulle leve geoeconomiche e spinta a sviluppare la sua forza militare. E la tecnologia è il vero asse portante delle alleanze e dell’egemonia di Washington. Secondo la National Security Strategy la tecnologia e le catene di approvvigionamento sono strumenti che Pechino utilizza per coercizione economica, repressione politica e esportare un modello illiberale di ordine internazionale. In questo scenario, il settore privato e i Mercati aperti sono una risorsa vitale per la forza dell’economia americana. Tuttavia, da soli non possono rispondere all’intenso ritmo dei cambiamenti tecnologici. Così, Biden ha stanziato cospicui fondi federali per ridare autonomia al Paese». ©

Articolo tratto dal numero del 15 febbraio 2024 de il Bollettino. Abbonati!

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