sabato, 27 Aprile 2024

Salari bloccati, c’è chi fa 2 lavori e chi si laurea e scappa

Sommario

I  salari degli italiani non crescono. Se nei 36 Paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), dall’Australia al Portogallo fino al Messico, gli stipendi sono aumentati del 32,5% dal 1991 al 2022, in Italia sono praticamente rimasti invariati. L’incremento dell’1% delle retribuzioni reali medie rispetto a 30 anni fa rappresenta, infatti, una manciata di briciole per fronteggiare l’attuale carovita. Crollato il potere d’acquisto, la maggior parte delle famiglie italiane si trova oggi in bilico tra inflazione e disoccupazione, secondo le elaborazioni dei dati ISTAT effettuate dagli analisti dell’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche).

Reddito e lavoro, un Paese diviso a metà

La pandemia da COVID-19 ha contribuito ad alleggerire le buste paga con una riduzione salariale del 5,9%. Ciò ha ampliato il divario tra Nord e Sud del Paese sia in termini di reddito annuo (32.462 euro in Lombardia, 24.940 in Basilicata) sia in termini di opportunità lavorative (73,8% di occupati in Trentino Alto Adige, 44% di occupati in Calabria). In media, la retribuzione lorda in Italia è di 29.500 euro, circa 1.700 euro al mese, però il 56% dei lavoratori dichiara di incassare meno di 1.300 euro mensili e solo il 4% percepisce oltre 2.850 euro. Lungo lo Stivale attualmente si guadagnano 3.700 euro l’anno in meno della media dei colleghi europei, 8.000 euro se comparati con gli stipendi tedeschi.

Quanto guadagnano gli italiani?

Sono 22,7 milioni gli italiani con un reddito al di sotto dei 20mila euro e 1,6 milioni quelli che superano i 60mila, mentre lo 0,1% dei contribuenti percepisce oltre 300mila euro l’anno ovvero 12mila euro al mese. Alle differenze geografiche si sommano quelle anagrafiche, che penalizzano i più giovani: tra 25 e 34 anni il reddito medio è di 25.818 euro, tra 45 e 54 anni è di 31.252 euro. Chi è laureato arriva a sfiorare il tetto dei 40mila euro annui, mentre gli altri superano di poco i 27mila euro. In generale il 23% di tutti i lavoratori dipendenti è pagato meno di 8 euro netti l’ora, il 6% tra 8 e 9 euro lordi. Statistiche che tendono a rendere omogeneo un quadro più che frastagliato dove oltre il 67% dei lavoratori dipendenti ha una retribuzione inferiore alla media nazionale. L’eccezione sono quelli pubblici che hanno invece salari medi di circa 34.500 euro: 10mila euro in più rispetto ai compensi percepiti in un anno da un agricoltore che opera nel privato.

L’Italia ha il tasso d’occupazione più basso d’Europa

Il report sulle diseguaglianze in Italia 2024 di Oxfam rivela quanto siano marcate le differenze sul Mercato del lavoro tricolore. Il tasso di occupazione medio italiano è oggi al 61,3%, in continua crescita dalla primavera del 2021. Resta però il più basso d’Europa che è in media del 69,5%. Inoltre, le performance positive sarebbero frutto del calo demografico, influenzato dall’emigrazione, in quanto il tasso di occupazione è appunto il rapporto tra il numero di persone che hanno un impiego e la popolazione residente. Risulta così trainato nella fascia tra i 25 e i 39 anni dalla diminuzione del numero di abitanti. Fattore che non appare determinante nella crescita degli occupati registrata tra i 55 e gli 89 anni di età.

La forza lavoro invecchia

Inoltre, le classi più anziane oltre a godere di maggiori opportunità lavorative riescono facilmente ad accedere a contratti a tempo indeterminato. Un’evidenza che conferma il progressivo invecchiamento della forza lavoro italiana, cristallizzata dai numeri sbalorditivi forniti dall’ISTAT. Negli ultimi 15 anni, per gli under-35 il tasso di occupazione è sceso dal 30,1% al 22,7%. Per gli over-50 è cresciuto dal 24,2% al 40,4%. Il bilancio è deludente. Dal 2008 al 2023 si conta quasi mezzo milione in più di occupati. I lavoratori tra i 15 e i 35 anni però sono diminuiti di 1.600.000 unità. Quelli tra i 35 e 49 anni sono calati di 1.900.000 unità, mentre quelli che hanno più di 50 anni sono aumentati di 4 milioni.

Precariato e condizioni lavorative poco appaganti

Leader del precariato è il contratto a tempo determinato che spopola nel Mercato italiano, usato dal 2009 per regolarizzare oltre 6 assunzioni su 10. Ma c’è di più. Sul circa 4,5 milioni di persone che nel 2022 hanno perso il lavoro, per 4,1 milioni la durata del contratto era inferiore a un mese. E 1,5 milioni avevano contratti giornalieri. Le condizioni lavorative sono evidentemente poco appaganti. Tant’è che appaiono sempre più diffuse le dimissioni volontarie, soprattutto tra: giovani, laureati, percettori di bassi salari, dipendenti con straordinari non retribuiti e/o privi della possibilità di godere di permessi in caso di necessità. L’INPS registra un incremento del 40% dei lavoratori che cambiano azienda entro 2 anni dall’assunzione e una costante crescita del numero medio di contratti stipulati da ciascun lavoratore nel corso di un anno solare.

Accentuate disparità salariali

Le disparità salariali, accentuatesi negli ultimi 30 anni, vanno a braccetto con il diffuso ricorso a contratti atipici e la riduzione delle ore lavorate, attraverso il boom dei contratti part-time. Aumentati del 20%, dal 2022 al 2023, i contratti di prestazione occasionale si attestano come trend in voga tra le opportunità offerte dall’imprenditoria e la loro remunerazione media mensile lorda è pari a 299 euro. In totale, nel 2023 sono state assunte dai privati circa 5 milioni e mezzo di persone, con una lieve riduzione generale dello 0,8% rispetto al 2022 e un aumento del 3% per i lavoratori stagionali. In decisa flessione, – 18%, le conferme dei rapporti di apprendistato. La differenza tra reclutamenti e licenziamenti (o cessazioni di contratto) nel 2023 è di circa 485.000 unità. Di queste 370.000 non sono nuove assunzioni, ma riguardano variazioni del rapporto con la trasformazione di contratti atipici in contratti a tempo indeterminato. Gli altri cittadini che hanno trovato impiego si sono ritrovati a firmare: 37.000 contratti a tempo determinato, 32.000 contratti di lavoro intermittente, 30.000 apprendistati e 19.000 commesse stagionali. Tra chi ha perso il lavoro invece il 9% aveva un contratto a tempo indeterminato.

Per le donne meno lavoro e salari più bassi

Alle diseguaglianze retributive, anagrafiche, geografiche e contrattuali si sommano le disparità di genere presenti nel Mercato del lavoro a livello globale. Nell’Unione Europea l’80% degli uomini ha un lavoro, mentre sono il 69,9% le donne con un impiego. Anche per l’occupazione femminile l’Italia mantiene la maglia nera con il tasso più basso dei Paesi UE: il 51,1%. In media, quindi, circa la metà delle donne italiane è disoccupata con punte che sfiorano il 70% nelle regioni meridionali dove le donne occupate sono: il 30,9% in Campania; il 32,3% in Sicilia e il 32,4% in Calabria. Per quanto riguarda le fasce d’età i dati nazionali sono allarmanti: nel 2004 lavorava il 44,1% delle ragazze under-34; nel 2022 ne risulta occupato solo il 37,3%. La parità salariale e contrattuale esiste solo nei settori della sanità e dell’istruzione. Negli altri comparti, in media, le donne guadagnano circa il 12% in meno rispetto ai colleghi uomini.

L’esercito dei Neet e la discriminazione dei migranti

Primato negativo dell’Italia nel Mercato del lavoro europeo anche per l’alto numero di Neet, giovani che né studiano né lavorano presenti sul territorio: sono il 19%. Un esercito di 5,7 milioni di ragazzi (4.259.000 tra i 15 e i 24 anni, 1.466.000 tra i 25 e i 34). Peggiore è la condizione degli stranieri comunitari e non che vivono in Italia: le opportunità lavorative per loro sono sempre di meno e l’81,1% di quelli che hanno un impiego vive in povertà assoluta. Il lieve incremento degli occupati registrato dall’ISTAT nel 2023 è infatti relativo solo a coloro che hanno cittadinanza italiana. Invece, per i migranti si assiste a un calo dell’1%. L’Eurostat rivela una realtà discriminatoria in Italia nell’accesso al lavoro a parità di titoli di studio. Il 66,5% dei cittadini non comunitari svolge impieghi che richiedono qualifiche inferiori alla propria formazione, ciò accade al 47,8% degli stranieri con cittadinanza in un Paese europeo e al 18% degli italiani.

Prendi la laurea e scappa

In tale scenario è facile ipotizzare le ragioni dell’emigrazione giovanile e della fuga dei cervelli all’estero. L’ondata migratoria è stata fotografata dalla Fondazione NordEst e Talented Italians in Uk nello studio Lies, Damned Lies, and Statistics: un’indagine per comprendere le reali dimensioni della diaspora dei giovani italiani. L’emigrazione italiana ha assunto dimensioni rilevanti dal 2010. A partire sono lavoratori dai 20 ai 34 anni, il 30% dei quali in possesso di almeno una laurea. Secondo l’analisi i dati ISTAT che contano 451.585 emigrati, tra il 2011 e il 2021, sarebbero sottostimati. In realtà a far la valigia per cercare un lavoro gratificante al di fuori dei confini nazionali sono il triplo delle persone: 1 milione e 300mila. Il saldo migratorio, nonostante i rientri (134.543 in 10 anni), è decisamente negativo e stima la perdita ufficiale di 317.042 giovani occupabili.

Chi sono gli italiani che emigrano?

Ad espatriare sembrerebbe siano i residenti delle regioni più ricche del Nord. Una situazione sulla quale il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inteso intervenire lanciando l’allarme e sottolineando che «chi lascia il nostro Paese lo fa per necessità e non per libera scelta, non trovando in Italia un’occupazione adeguata al proprio percorso di formazione e studio». A confermarlo sono gli studi della Talented Italians in Uk che rivelano come gli emigrati italiani rappresentino una comunità di persone, più istruite, più giovani e più motivate della media dei propri connazionali. Insomma un plotone d’assalto con il potenziale adatto a risollevare l’economia del Paese al quale con superficialità viene sbattuta in faccia la porta d’accesso al Mercato del lavoro.

Atteso graduale aumento dei salari

Il futuro prossimo appare però, dal profilo statistico, meno drammatico di quanto si potrebbe immaginare. Le prospettive per l’economia italiana nel 2024, dalle proiezioni ISTAT, non sarebbero a tinte fosche. È prevista una crescita dei consumi che sarà favorita dal graduale incremento delle retribuzioni, dal moderato aumento dell’occupazione, dalla riduzione dei prezzi e dell’inflazione. Si stima che la disoccupazione diminuirà nel corso dell’anno del 7,5% e i posti di lavoro segneranno un +0,8%. Dal terzo trimestre del 2023 pare si sia entrati in una fase positiva di ripresa del Mercato del lavoro italiano testimoniata dal timido aumento rispetto al 2022 delle ore lavorate del 2% e dell’1,4% del personale impiegato. Una flebile crescita che ha riguardato in maggior misura i servizi con il 2,6% in più di ore lavorate, le costruzioni con il 2,2% e l’industria con un incremento dello 0,5%.

Un impiego non basta, serve il doppio lavoro

Il Pil dovrebbe, secondo le attese, arricchirsi anche se solo dello 0,8%. Un quadro roseo, ma non troppo, in un panorama di incertezze che fiaccano le speranze dei lavoratori. Per sfuggire alla povertà e non scivolare nel baratro del working poor sono circa 3 milioni gli italiani che ricorrono al doppio impiego. La stima comprende anche parte dei dipendenti statali (quelli che operano abusivamente non rientrano nel computo) che nel 2022 hanno arrotondato lo stipendio con il doppio lavoro incassando in totale 7,6 milioni di euro. Una scelta che in Europa coinvolge il 3,87% degli occupati. Le persone che scelgono di svolgere contemporaneamente due lavori sono in UE 7,5 milioni. Il loro numero continua a lievitare soprattutto tra donne e laureati.

Lavorare 55 ore a settimana, rischi per la salute

Un fenomeno sul quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indagato traendo conclusioni poco rassicuranti sull’impatto negativo di tale pratica. Pericolosa non solo per la salute del lavoratore, ma anche per la sicurezza dell’ambiente nel quale opera: basti pensare a un camionista stanco alla guida di un tir. L’OMS ha così dimostrato che lavorare oltre 55 ore a settimana porta al 35% in più di possibilità di avere un ictus e il 17% di morire a causa di blocchi cardiaci, rispetto a chi dedica al proprio lavoro 35/40 ore settimanali. © 

Articolo tratto dal numero del 15 febbraio 2024 de il Bollettino. Abbonati!

📸 Credits: Canva

Giornalista professionista appassionata di geopolitica. Per Il Bollettino mi occupo di economia e sviluppo sostenibile. Dal 2005 ho lavorato per radio, web tv, quotidiani, settimanali e testate on line. Dopo la laurea magistrale in Giornalismo e Cultura Editoriale, ho studiato arabo giornalistico in Marocco. Ho collaborato a realizzare in Saharawi il documentario La sabbia negli occhi e alla stesura della seconda edizione del Libro – inchiesta sulla Statale 106. Chi è Stato?