Resistere agli urti della crisi è possibile. O almeno, lo è per chi ha un buon mental coach o un mentor esperto. Quello degli allenatori della mente è un settore che ha ripreso quota dopo la pandemia da Covid-19 e attualmente muove nel mondo un volume d’affari da 20 miliardi di dollari, secondo i dati dell’ICF Global Coaching Study 2023. Il fatturato dal 2019 a oggi è cresciuto del 60%, mentre i professionisti attivi in Europa sono ben 30.800, un numero aumentato del 51% negli ultimi 5 anni. L’obiettivo? Migliorare le performance personali e professionali dei propri clienti. Una sfida non facile. «Il mondo è cambiato tantissimo negli ultimi 10 anni e il coaching si è evoluto di conseguenza» dice Alessandro Pegoraro, Presidente di EMCC Italia (European Mentoring Coaching Council).
Mental Coaching in Italia
Nel nostro Paese la disciplina ha iniziato a diffondersi a partire dagli anni ‘90 e si prevede che il numero dei clienti dei coach italiani lieviterà del 71% nei prossimi mesi portando con sé il 68% di nuovi utili. Le aspettative dei professionisti del settore italiani sono abbastanza rosee: il 58% confida nell’incrementare il numero di sessioni retribuite, mentre il 35% pensa che la tariffa all’ora per la propria prestazione possa aumentare producendo maggiori utili. Attualmente, in Europa, il prezzo medio per 60 minuti di coaching è di 256 euro. Costi che ovviamente variano nei diversi Paesi comunitari. L’ICF stima che nell’Europa Occidentale il totale del fatturato annuale di un coach si attesti sui 48.500 euro. Ciascun coach sembrerebbe inoltre seguire almeno 11 clienti fissi all’anno.
Chi popola il mental coaching
Le donne che si occupano di coaching in Italia sono in numero nettamente superiore agli uomini, rappresentando il 67% dei professionisti attivi nel Paese. La maggior parte (il 57%) appartiene alla Generazione X, hanno quindi un’età compresa tra 59 e i 43 anni. I Millennials rappresentano invece il 7% dei coach italiani ed i Baby Boomers sono il 35%. Quasi il 90% di chi esercita la professione è in possesso di una laurea e il 28% ha un’esperienza sul campo ultradecennale. Le aree di intervento maggiormente richieste riguardano il business e l’organizzazione (nel 26% dei casi), la direzione esecutiva (19%), la carriera (19%), la leadership (16%), la visione della vita e la valorizzazione di se stessi (8%), le relazioni (3%), la salute e il benessere (2%).
L’evoluzione del coaching nei prossimi 12 mesi sembrerebbe inoltre che porterà all’aumento dell’87% dell’utilizzo, come strumento di interfaccia, delle piattaforme audio-video, mentre entro il 2029 crescerà del 30% l’uso della realtà aumentata. Inoltre più della metà dei coach italiani, il 52%, sta pianificando di consolidare il numero di servizi aggiuntivi offerti ai propri clienti (allenamento, consulenze, formazione, mentoring e counseling). A livello mondiale il 57% dei clienti dei coach professionisti fruisce dei loro servizi che vengono pagati dal datore di lavoro, mentre sono il 43% quelli che autonomamente provvedono a coprire le spese del proprio percorso di coaching. Statisticamente il 58% degli utenti è donna e il 37% ha tra i 35 e i 44 anni, mentre il 32% ha un’età compresa tra i 45 e 54 anni. Solo un quinto delle persone che si rivolgono ai mental coach, il 21%, ha meno di 35 anni.
Quanto rende avere un mental coach
Per quanto riguarda le nuove tecnologie il 46% dei coach ha un’opinione estremamente positiva dell’Intelligenza Artificiale che ritiene sia la prossima innovazione dirompente nel settore che renderà più facile la loro attività. Al contrario il 61% dei coach esprime incertezza e preoccupazione per l’introduzione dell’AI nel coaching. Dai sondaggi dell’ICF eseguiti in 157 Stati il 99% di coloro che hanno svolto un percorso di coaching ritiene di essere soddisfatto dall’esperienza. Una scelta che si calcola abbia un ritorno dell’investimento – ROI (Return On Investment) – dell’86%. Ciò significa che per ogni euro investito nelle sessioni si ottengono 0,87 euro di guadagni. Nel mondo, ufficialmente, i coach professionisti sono oggi 109.200 ed entro la fine del 2024 diventeranno 145.000. Il loro numero è cresciuto del 54% rispetto al 2019 quando erano circa 71.000. La loro presenza si moltiplica in maniera esponenziale soprattutto nelle regioni emergenti dell’Asia (87%), di Africa e Medio Oriente (74%) ed Europa dell’Est (59%).
Il business del coaching
Su scala globale le entrate annuali generate dal settore sono state nel 2022 di circa 4.564 miliardi di dollari. Mettere a disposizione dei propri dipendenti un mental coach si rivela essere un’opzione interessante e prioritaria per le imprese che intendono risollevarsi dalla crisi con un approccio resiliente al Mercato. Ottimizzando il potenziale dei lavoratori e delle dinamiche di gruppo è infatti possibile migliorare le performance aziendali e quindi la competitività. Sempre più realtà ne sono consapevoli e attivano percorsi di coaching riscontrando tra i collaboratori maggior coinvolgimento nel perseguire la mission stabilita dal datore di lavoro. L’unità di intenti è un fattore che rende le attività più produttive e con il 60% in più di probabilità di successo nell’acquisire nuove commesse o ampliare il target della clientela.
Le tecniche
Come è possibile? Le tecniche applicate si basano soprattutto sulle scienze comportamentali che studiano i processi cognitivi che portano gli esseri umani ad avere alcuni atteggiamenti e se vengono calibrate, orientate al progresso e sviluppo della persona producono reali cambiamenti nell’approccio alla vita e ai rapporti sociali. E ciò rende performanti. A testimoniarlo è anche uno studio della OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) che analizzando l’economia del Trentino Alto Adige sostiene che nelle aziende a conduzione familiare, il coaching e il mentoring generazionale possono aiutare a preparare la prossima generazione a tirare le redini dell’impresa con successo. Per l’Human Capital Institute (HCI) e l’International Coach Federation (ICF) il 54% delle aziende che sono classificate come ‘high performing’ hanno una forte cultura di coaching. Solo il 29% di queste imprese brillanti non si avvale delle sessioni dedicate di un mental coach. La tendenza però sta cambiando.
La democratizzazione del coaching
È in corso quella che è stata definita la democratizzazione del coaching. Pacchetti flessibili e personalizzabili in base alle esigenze e al numero di coachee da seguire ampliano il ventaglio di collaboratori che ne possono usufruire. Attraverso soluzioni digitali e varie formule di colloqui (soprattutto da remoto) con investimenti relativamente bassi il servizio può essere esteso all’intero organigramma traendone notevoli benefici. Una formazione collettiva allargata, facilmente praticabile, che costruisce e rafforza l’amalgama del gruppo, fidelizzando il lavoratore. Dirigenti delle Risorse Umane sono concordi nel dire che orientativamente il 75% dei dipendenti coglie l’opportunità di partecipare ad un programma di coaching quando gli viene offerto. Più di tre persone su quattro, il 78%, che hanno pagato di tasca propria il mental coach quando hanno iniziato il loro percorso erano stati licenziati, si sentivano ignorati dai loro capi o stavano ricevendo troppi rifiuti sul posto di lavoro.
Gli effetti del coaching
L’89% dei coachee considera le sessioni più motivanti e il 90% più utili rispetto ai tradizionali approcci dei corsi sullo sviluppo personale o sulla leadership. I benefici ottenuti vengono riconosciuti al termine del percorso, tant’è che il 96% degli utenti esprime la volontà di sottoporsi nuovamente ai colloqui. Le dimissioni hanno un prezzo elevato per l’azienda in termini economici. Il costo della sostituzione di un dipendente può variare dal 50% al 200% del suo stipendio (dati Randstand Risesmart), una spesa che per molti imprenditori è meglio evitare mantenendo il personale così da consolidare il rapporto di fiducia, il know-how dell’azienda e non dovendo reinvestire fondi per formare i nuovi dipendenti assunti. Per questo motivo si preferisce puntare sul coaching riconoscendone la capacità di preservare la stabilità dei fatturati. I principi di fondo restano gli stessi, ma le sfide, quelle sono nuove, e danno forma alle prospettive dei prossimi anni.
Come è cambiato il coaching nell’ultimo periodo?
«Prima consisteva esclusivamente in una relazione tra il coach e il cliente, il cosiddetto coachee. Un rapporto molto elitario offerto solo alle figure apicali delle aziende. Nell’ultimo decennio al coaching individuale si sono aggiunti altri approcci come Group Coaching e il Team Coaching – come ad esempio Speexx o Coach Hub – alla diffusione della disciplina su più larga scala».
Quali sono i prezzi e cosa chiedono i clienti?
«Nelle sessioni di coaching i prezzi variano tantissimo in funzione sia del livello del cliente sia del rapporto che il coach hanno con la committenza, ma possono anche arrivare a 650/800 euro a sessione».
Che cosa chiedono i manager?
«Dipende da chi commissiona il percorso. Se sono le aziende, ciascuna ha i suoi focus specifici e definisce le priorità e gli obiettivi dei percorsi in funzione della persona. Con i managers che vengono a spese loro, e sono molti di più di quanto si potrebbe pensare, vi è più libertà. La cosa interessante è che, di solito, i percorsi affrontano più o meno lo stesso tema: come armonizzare l’agenda personale (chi voglio essere, cosa intendo realizzare, etc.) con l’agenda organizzativa, ovvero cosa mi chiede di fare l’azienda. Quello che emerge è una pressante ricerca, da parte di manager e professional di essere accompagnati in modo costante nel loro percorso professionale. Questo bisogno, confermato anche da ricerche internazionali, deve portare anche noi coach a rivedere le modalità di offerta. Per esempio, non è detto che il tradizionale percorso coaching basato su sei/otto sessioni a intervalli stabiliti a priori sia quello giusto. Oppure che un percorso di Team Coaching non possa essere abbinato a delle sedute individuali con il team leader. Solo solo esempi, ma per servire meglio i nostri utenti dobbiamo avere il coraggio di uscire dagli schemi».
Lei aiuta i lavoratori a diventare amministratori delegati della propria carriera, a porsi degli obiettivi e raggiungerli. Come si sviluppa questo percorso?
«Si matura insieme, non ci sono ricette. È questo il bello del coaching, che è forse la modalità di accompagnamento più personalizzabile rispetto alla formazione o agli addestramenti organizzativi, perché consente di esaminare tante dimensioni della persona. I percorsi “decollano” da un obiettivo e, di solito, “atterrano” su altro. Questo succede perché le persone credono di sapere quali siano le mete che hanno stabilito ed essere essere pienamente certi di dove vogliano arrivare.
Lavorando insieme – a me piace molto la metafora del pedalare in tandem – si generano via via contenuti, riflessioni e nuove consapevolezze che la persona non era assolutamente pronta a prendere in considerazione. Un altro punto è che, spesso, i manager sbagliano a valutare le opportunità offerte loro dall’azienda, questo perché alcuni ruoli e incarichi aziendali presentano vantaggi indiscutibili (visibilità, potere, soldi), ma in cambio richiedono una fatica e delle caratteristiche particolari – uso un termine generico volutamente – che non sono alla portata di tutti. In questi casi, purtroppo, il rischio più frequente è il burnout».
Come reagiscono i managers quando si trovano a perdere o cambiare lavoro?
«Quando si lavora, bisogna tenere in considerazione l’eventualità di essere messi da parte o addirittura licenziati. Io ho perso il lavoro due volte, e fa malissimo, ma purtroppo fa parte del gioco».
Come si fa ad affrontare i momenti difficili dal punto di vista professionale, specie se colpiscono pesantemente le finanze familiari?
«Noi coach non facciamo miracoli, ma siamo bravi nell’aiutare le persone a fare un bilancio delle esperienze maturate e ad essere consapevoli dei propri punti forza e di cosa può portare a nuove esperienze lavorative».
Le lancio una provocazione: perché, se un’azienda ha dei dipendenti insoddisfatti, non dovrebbe aumentare il salario o le ferie, ma rivolgersi a un coach?
«Numerosi studi dimostrano come la creazione di una relazione e lo sviluppo del potenziale spesso valgono di più della busta paga. Personalmente consiglio di fare entrambe le cose: sia attivare un percorso di coaching sia aumentare il salario e/o le ferie. Il coaching dà una mano alle aziende nel fare sentire le persone accompagnate e rafforza i progetti di sviluppo e inclusione. E, mi creda, di questi tempi non è poco».
L’evolversi della società ha generato nuovi fenomeni che coinvolgono il mondo del coaching?
«Certo. Innanzitutto, negli ultimi due anni si è invertita la tendenza: sono più le donne che iniziano percorsi di coaching rispetto agli uomini. Noto che le aziende stanno varando programmi molto ben fatti per armonizzare tempi di vita e tempi di lavoro combinati con percorsi di coaching per supportare il rientro dalla maternità, la genitorialità o anche il caregiving nei confronti dei familiari anziani o in difficoltà. Se consideriamo che in un’azienda convivono 4/5 generazioni, è normale che di cose da fare ce ne siano una miriade per trovare soluzioni motivanti e inclusive. Il coaching aiuta a stabilire un equilibrio dinamico tra azienda e lavoratori, per ottimizzare le prestazioni di entrambi». ©
Articolo tratto dal numero del 1° Giugno 2024 de il Bollettino. Abbonati!
📸 Credits: Canva