Taiwan cerca partecipazioni in Europa sfidando il predominio cinese. «Le relazioni con l’Unione sono improvvisamente entrate nel radar di Taipei, che fino a ora era sempre stato maggiormente orientato verso gli Stati Uniti», ha spiegato Freddie Höglund, amministratore delegato della Camera di Commercio UE a Taiwan. A fronte di una robusta relazione commerciale (circa 4.3 miliardi di euro l’interscambio nel 2020), che fa dell’Italia il quarto partner del Paese asiatico tra gli Stati UE – dopo Germania, Paesi Bassi e Francia, quella dell’investimento è una dimensione ancora poco sviluppata sia in termini di stock che di flussi. Questi ultimi hanno conosciuto una relativa accelerazione dopo il 2000, anche grazie a operazioni compiute da aziende taiwanesi nei settori della logistica, dei macchinari e delle macchine utensili, dell’ospitalità e della motoristica.
Alla conquista del Vecchio Continente
La crisi nella disponibilità di materie prime sta spingendo le politiche industriali a perseguire un sufficiente livello di autonomia, almeno nelle filiere che condizionano il futuro della produzione. D’altra parte, le grandi imprese, consapevoli di quanto sta accadendo, hanno già preso atto di questi mutamenti e si orientano a dividere il rischio di possibili ostacoli al commercio con una nuova strategia di investimenti nelle grandi aree dove non sono sufficientemente presenti. Il settore dei semiconduttori è un buon esempio di questo processo. La taiwanese TSMC – leader mondiale nel comparto – sta massicciamente trasferendo capacità produttiva in Europa (si parla di un possibile impianto in Italia), dove la domanda eccede largamente l’offerta e dove la sua presenza nel manifatturiero è trascurabile. La localizzazione, fino a ieri assolutamente concentrata nel Paese di origine anche per la convenienza nei costi di produzione, obbedisce ora alla necessità di interpretare le nuove evoluzioni della concorrenza.
Il blocco alla Cina
Naturalmente, questa evoluzione genera comportamenti difensivi che si materializzano nel rendere difficili gli investimenti e gli acquisti di impresa a operatori che provengono da aree considerate ostili. Sia negli Stati Uniti sia in Europa si stanno alzando gli ostacoli alle acquisizioni da parte di operatori cinesi. Negli anni, in Italia, queste ultime sono quasi quadruplicate: dalle 67 aziende a inizio 2011 alle 250 di inizio 2020 (tra di esse due nomi storici dell’industria milanese e brianzola, quali Pirelli e Candy). Lo stesso per quanto riguarda il numero di dipendenti delle imprese partecipate, passato in soli nove anni da meno di 4mila a oltre 18mila unità.
Se nel 2016, in Germania, è stato dato il via libera all’acquisto della principale impresa di robot (Kuka), oggi vengono proibite anche le partecipazioni in aziende che hanno un’importanza tecnologica ed economica assai minore. Detto questo, in conseguenza di decenni di apertura dei mercati, sussistono ancora legami molto profondi e diffusi fra le imprese globali e, fatta eccezione per i settori ad alta tecnologia, il commercio internazionale prosegue con una sua continuità. L’intreccio dell’economia mondiale è divenuto troppo stretto per essere reciso senza provocare danni irreparabili a tutti i sistemi economici, nessuno escluso.
Concorrenza tecnologica prima che economica
A una concorrenza tra le grandi aree economiche, principalmente fondata sul costo del lavoro, si sta rapidamente sostituendo una nuova concorrenza incentrata sulla scienza e sulla tecnologia. Raggiungere un elevato livello di autonomia in questi settori è ormai diventata una condizione essenziale per mettere in atto una politica estera efficace, anche a scapito dell’efficienza economica. Tutto questo è esasperato dall’attuale livello delle tensioni politiche ma, almeno per ora, non vi sono prospettive di un’inversione di tendenza.
Caso Cogne – la storica azienda valdostana cede a Taiwan
Vale 210 milioni di euro l’operazione condotta dal Gruppo Walsin Lihwa per acquisire il 70% dell’impresa siderurgica pilastro della città di Aosta. Ne dà notizia, sul suo sito, il colosso taiwanese. La storica azienda nostrana, di proprietà della famiglia Marzorati – che nel 1994 aveva rilevato la fabbrica dall’Ilva – è un simbolo per il territorio e per la città, un punto di riferimento e un volano per la crescita della Regione fin dalla sua nascita, negli anni ‘30 del Novecento. Con i suoi 106 anni di attività, ha segnato l’espansione demografica e lo sviluppo urbano del capoluogo valdostano. «È un piacere collaborare con la famiglia Marzorati. Sotto la sua guida, Cogne si è sviluppata fino a diventare un produttore di leghe d’acciaio di prim’ordine. Insieme, ci impegneremo per essere leader globali del settore», ha dichiarato Yu-Lon Chiao, Presidente della società di Taiwan.
7000 dipendenti e 4,7 miliardi di euro di fatturato, Walsin Lihwa ha i maggiori siti produttivi in Giappone, Cina e Malaysia. Nei suoi interessi, non solo l’acciaio (comparto nel quale il Gruppo è cresciuto del 42% lo scorso anno): la Walsin è attiva anche nella produzione e vendita di conduttori, fili e cavi in rame (+ 56%) e nella compravendita dell’immobiliare commerciale (nel 2021 in regresso). Entrando nella società della famiglia Marzorati, la compagnia asiatica acquisisce la ricca gamma di acciai speciali prodotta ad Aosta: prima ne annoverava solo alcuni nel suo portafoglio. E mette un piede in Europa, dove finora era assente: una mossa vincente che le consente di vendere nel Vecchio Continente senza essere soggetta a dazi UE. In più, le permette di affermarsi in un mercato che fino a questo momento contava solo il 2% delle vendite, che per l’86% venivano assorbite in Asia.
«L’investimento non solo amplia la nostra portata internazionale: grazie alla nostra offerta di prodotti complementari, alle nostre capacità produttive, alle certificazioni e ai canali di vendita, ci aspettiamo di costruire sinergie significative, di espanderci e di sviluppare prodotti per nuovi mercati, offrendo valore ai nostri clienti attraverso i servizi manifatturieri», ha spiegato Yu-Lon Chiao. Difficile immagine, nel business futuro del Gruppo, quanto peserà il fatto di avere un sito produttivo distante migliaia di chilometri da tutti gli altri. Oltretutto soggetto a normative ambientali e a una legislazione del lavoro stringenti e, specialmente, in un Paese in cui la cultura della produzione è ben diversa da quella asiatica.
Allenza Taipei-Vilnius: un monito o l’inizio di una svolta?
Le relazioni tra Taipei e il Vecchio Continente si sono dimostrate più profonde in alcuni Stati, e la Lituania è uno di questi. Il Paese asiatico ha promesso di stanziare un fondo da 200 milioni di dollari dedicato agli investimenti nelle imprese lituane, con l’obiettivo di incrementare il commercio bilaterale e allentare la pressione diplomatica esercitata dalla Cina sullo Stato baltico. Lo ha annunciato lo scorso gennaio Eric Huang, capo dell’ufficio di rappresentanza taiwanese a Vilnius. Com’era prevedibile, la decisione ha alimentato le tensioni con Pechino, che ha richiamato il suo ambasciatore a Vilnius e declassato le relazioni diplomatiche, oltre a fare pressione su molte compagnie affinché smettessero di utilizzare componenti prodotti in Lituania e a bloccare le importazioni verso la Cina.
La difesa del Paese dalla crescente pressione politica e coercizione economica di Pechino rappresenta una priorità per gli Stati Uniti di Joe Biden, che stanno cercando di spingere alleati e partner – compresa l’Italia – al fianco di Vilnius. Questa prova di forza contro il Dragone a favore di Taiwan potrebbe garantire al piccolo Stato baltico un vantaggio inaspettato, solo lontanamente immaginabile per Francia e Germania: investimenti nella produzione di microchip, industria cruciale nella quale l’Europa è in grande ritardo. Le potenze industriali del Vecchio Continente hanno cercato la cooperazione con i pesi massimi (e democratici) asiatici del settore, come Taiwan e la Corea del Sud, ma finora le loro proposte hanno prodotto pochi risultati. Ora la disputa tra Lituania e Cina potrebbe sbloccare l’impasse.
E se una non escludesse l’altra?
Secondo Höglund, si possono avere buoni rapporti con Taipei senza pregiudicare quelli con Pechino. «In molti, in Europa, pensano che una cosa escluda l’altra, ma lo ritengo un mito. È ammissibile commerciare in entrambi i luoghi senza ripercussioni particolari, pur con le restrizioni all’import su alcuni prodotti che però non hanno a che vedere con il fatto che un’azienda operi in Cina o a Taiwan. Il commercio è al di sopra della politica, ma gli europei tendono a credere che i due aspetti siano intrecciati e quindi si muovono con cautela, anche se non credo sia necessario. Il caso lituano ha però in qualche modo alimentato questa convinzione. Ecco perché anche l’UE ha preso una posizione più dura nei confronti della presenza cinese nell’Organizzazione Mondiale del Commercio», ha commentato l’amministratore delegato. ©
Sara Teruzzi
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