lunedì, 29 Aprile 2024

Poca crescita e scarsa istruzione, come facciamo a risparmiare?

Sommario

Neanche l’immigrazione riesce a invertire il trend di invecchiamento. «I migranti vedono l’Italia come un primo approdo, perché fisicamente prossimo, ma poi tendono ad andare via», dice Giorgio Di Giorgio, Prorettore Organizzazione e Faculty presso l’Università Luiss Guido Carli. Il nuovo record minimo di nascite (393mila) e l’elevato numero di decessi (713mila) continuano a produrre un forte impatto sulla dinamica naturale. Dal 2008, anno in cui si è registrato il valore massimo relativo di nascite degli ultimi 20 anni, l’Italia ha perso la capacità di crescita per effetto del bilancio naturale, non avendo abbastanza nati per sostituire i morti. Il deficit del saldo naturale ha raggiunto i picchi più elevati nel biennio 2020-2021, quando si è registrata una perdita di oltre di 300mila persone in media annua. In compenso, il saldo migratorio sale: da 80mila ingressi netti nel 2020 a 229mila nel 2022. Ma non è comunque abbastanza a compensare.

Perché attraiamo meno di altri Paesi?

«Ci sono degli aspetti culturali e linguistici che rendono altri Paesi europei più attrattivi, per esempio la Francia. Poi c’è il differenziale in termini di trattamento salariale e di opportunità di lavoro con i Paesi del Nord Europa. L’Italia è una Nazione relativamente più piccola rispetto a Francia e Germania, ma densamente popolata. Per questo, viene percepita come un luogo dove ci sono meno opportunità. Fino a questo momento non siamo riusciti ad avere una politica di attrazione dei migranti di alta qualità, tanto in termini di persone che decidono di venire a studiare in Italia quanto di venire a lavorare in modo qualificato. Scontiamo il fatto che abbiamo dei differenziali di salario abbastanza penalizzanti. Noi paghiamo un ingegnere la metà o 1/3 di quanto lo paga la Germania.

Differenze in busta paga e opportunità di lavoro nel settore formale degli stranieri che arrivano, ma anche una politica che ha sempre cercato in qualche modo di limitare e ostacolare l’accesso di migranti. La sensibilità a comprendere che abbiamo bisogno di personale straniero di qualità inizia a farsi sentire solo adesso che stiamo andando verso una crisi demografica seria. Fino a questo momento siamo stati molto difensivi, ancora alcuni orientamenti politici sono nel difendere l’italianità, nel non aprirsi ad avere una società multietnica e multiculturale.

Questo è presente nella società italiana, che è stata più a lungo schermata, rispetto a Francia e Germania. Per esempio, noi abbiamo avuto delle ondate di immigrazione di persone di non altissimo livello culturale, che però sono dei grandi lavoratori. Nel settore dell’edilizia o dell’agricoltura utilizziamo moltissimo manodopera che viene dal Nord Africa o Paesi dell’Est. È necessario modificare i flussi per la migrazione regolare, cercando di adottare degli incentivi, delle politiche che portino in Italia persone istruite che poi potranno dare un contributo. Sono scelte difficili da intraprendere, ma necessarie, visto che il saldo tra mortalità e natalità è sfavorevole».

Come può un giovane tutelarsi dal rischio longevità, non potendo più fare affidamento solo sulla pensione pubblica?

«Cominciare a risparmiare, accumulando piccole somme di denaro, può portare a significativi benefici in futuro grazie all’interesse composto. La strategia può fornire un’integrazione pensionistica di tipo privato, al di là dell’importo che si riceverà dalla pensione pubblica. Anche se all’inizio gli stipendi possono essere modesti. Ciò richiede un impegno significativo per i ragazzi, ma necessario perché si vivrà più a lungo. Un buon punto di partenza potrebbe essere riservare il 5 o il 10% del reddito mensile per il risparmio. Una volta raggiunta una certa cifra, ad esempio 1.000€, si potrebbe considerare di investirlo in titoli di stato, obbligazioni o fondi azionari per generare un reddito supplementare da utilizzare al momento della pensione.

Insieme ad altri due docenti avevamo proposto di legare i risparmi alle spese di consumo. Nasce così l’dea del fondo di CashForward, cioè destinare una piccola quota, anche solo l’1% di queste spese, all’accantonamento di risparmio pensionistico. Questo principio può essere applicato non solo quando si entra nel mercato del lavoro, ma anche durante gli anni di studio, quando si effettuano acquisti finanziati dai genitori o dai nonni, attraverso uno strumento di pagamento registrato. L’approccio contribuisce a sviluppare una cultura finanziaria incentrata sul risparmio previdenziale, creando consapevolezza che arriverà un momento in cui non avremo più redditi da lavoro per finanziare le spese, ma dovremo attingere ai fondi che abbiamo risparmiato».

Anche qui, l’educazione finanziaria è fondamentale…

«Sì, è molto importante. Però, dalle analisi fatte a livello internazionale, noi abbiamo un livello di istruzione non solo finanziaria insufficiente, ma anche scolastico-universitaria inadeguata. Nel senso che abbiamo il più basso numero di laureati nell’UE, il più basso numero di persone che si iscrivono alle università, in un mondo in cui sono sempre più richieste conoscenze specialistiche, questo fa molto male. Quindi dobbiamo invertire la rotta, inserire nozioni di base di economia, di finanza e di business già nei percorsi formativi scolastici. Bisogna comunicare ai ragazzi.

Entrare immediatamente nel mondo del lavoro può avere dei benefici, come l’indipendenza e la possibilità di acquistare ciò di cui si sente il bisogno. Però investire in sé stessi attraverso l’istruzione può aprire porte a opportunità più vantaggiose in futuro. Senza un certo livello di istruzione, si potrebbe non essere in grado di accedere a determinati lavori e salari. Ciò rappresenta una scelta: sacrificarsi di più ora per avere meno preoccupazioni in futuro».

In Italia solo 2-3 ragazzi su 10 si iscrivono all’università e se ne laureano ancora meno. Come mai c’è questo dislivello rispetto al resto d’Europa?

«Le ragioni sono difficili da considerare. Subito dopo la Seconda guerra mondiale avevamo una percentuale di laureati veramente molto bassa, nonostante la prima università al mondo sia quella di Bologna. Sicuramente abbiamo un passato pionieristico negli studi universitari, ma poi la società italiana è stata a lungo una comunità agricola. Anche quando c’è stato il passaggio a nuova società industriale, questa si è specializzata in alcuni settori dove evidentemente le competenze più elevate – universitarie – non venivano immediatamente riconosciute. La specializzazione produttiva del nostro Paese è stata a lungo in settori che poi sono stati esposti alla concorrenza internazionale. Ad esempio, il distretto del tessile e del mobile.

Solo in alcune nicchie avanzate di design di eccellenza siamo riusciti a mantenere i vantaggi del Made in Italy. In altri campi, invece, l’imitazione dei Paesi dove la manodopera costava meno ci ha portato via quote di mercato molto importanti. Ci sono state scelte imprenditoriali a volte sbagliate, ed è mancata una guida della politica su questi temi. Molto spesso i messaggi politici o comunque della società civile sono più orientati a privilegiare delle carriere di successo nel mondo dello spettacolo o dello sport rispetto ad una carriera di studi e di lavoro specializzato in ambito produttivo aziendale. Questa è sicuramente una cosa su cui va cambiata l’impostazione e bisogna fare più comunicazione a tutti i livelli, a partire dalle scuole».

Quindi sono i valori di base a essere un po’ distorti?

«C’è stata una certa degenerazione, che non ritengo sia esclusiva dell’Italia, per cui la valenza positiva di sacrifici e degli studi sembra essere stata riconosciuta meno. Questo è dovuto anche a scarse differenze salariali tra laureati e diplomati all’interno di un singolo Paese o azienda, dove probabilmente non sussistono gli opportuni incentivi economici. Però non credo che si tratti solo di una questione economica. Bisogna far capire che le carriere offrono una varietà di prospettive, anche in termini di diverse potenzialità relazionali. Ci sono anche le soddisfazioni personali e la possibilità di cambiare settore più facilmente. Un’educazione più ampia e avanzata offre anche la capacità di spostarsi da un settore all’altro con maggiore facilità».

La nostra educazione terziaria è sufficiente a formare i giovani?

«Sì, abbiamo ottime università sia pubbliche, sia private. Dobbiamo cercare di convincere di più gli studenti che è opportuno investire in 3 o 5 anni di ulteriore studio, invece che accettare un’offerta di lavoro o mettersi a fare altro. In Italia c’è una percentuale elevata di ragazzi tra i 15 e i trent’anni che non studiano e non lavorano; quindi, sono lì a far nulla o lavorare in modo informale. È un fenomeno di tale rilevanza quantitativa che non può essere circoscritto solo a poche aree geografiche. Può essere combattuto anche con un impegno a migliorare la qualità dell’apprendimento e dell’istruzione in tutto il ciclo scolastico.

Abbiamo avuto molti ritardi nell’adattare i programmi della nostra scuola, l’approccio dei professori con gli studenti e nel dare anche i corretti incentivi e gratificazioni al corpo docente. In passato c’era probabilmente una maggiore gratificazione – anche sociale – della figura del professore di scuola media o di un’insegnante di scuola primaria. Ciò fa parte del pacchetto di compensation che un soggetto ottiene dal proprio lavoro. C’è la remunerazione monetaria, ma poi c’è anche la gratificazione sociale, il sentire di avere un ruolo importante nella vita delle persone. E i docenti, a tutti i livelli della scuola, hanno un ruolo molto importante. Gli insegnati di scuola elementare, media e di liceo vedono i ragazzi per anni tutti i giorni e hanno un impatto fortissimo sulla loro vita.

Di conseguenza, avere un corpo docenti che non è gratificato, non è invogliato a fare bene il suo mestiere, basandosi solamente sull’impegno personale, è troppo poco. Bisogna investire sull’istruzione a tutti i livelli. Al contrario, negli ultimi 15 anni il settore ha visto le risorse prosciugarsi, drenate verso altre iniziative. Anche le aziende private hanno sottoinvestito nella ricerca e sviluppo, nella formazione dei dipendenti. Non hanno saputo cogliere l’importanza della formazione continuativa di capitale umano. Quindi c’è da fare questo salto di livello, non solo nelle politiche governative, ma anche nelle strategie, nelle decisioni d’impresa. I tagli all’istruzione e alla ricerca fanno sì che l’Italia perda competitività tanto a livello europeo quanto internazionale».

Perché in Italia c’è resistenza da parte delle aziende ad introdurre meccanismi di previdenza complementare, come benefit per i dipendenti, nonostante gli sgravi fiscali?

«Il principale ostacolo riguarda il costo del lavoro, aggravato da un consistente carico fiscale e contributivo. Quest’ultimo, rappresentando circa il 33% dei contributi previdenziali pubblici, potrebbe scoraggiare le aziende a investire ulteriormente in pacchetti pensionistici. Però la situazione potrebbe cambiare nel tempo. Infatti, i lavoratori, soprattutto quelli altamente qualificati che oggi sono molto richiesti, potrebbero chiedere all’azienda di includere nel loro pacchetto retributivo anche degli incentivi pensionistici. Ad esempio, per ogni euro che un lavoratore investe personalmente in un fondo pensionistico, l’azienda potrebbe contribuire con il 50%, oppure garantire una percentuale annuale che il lavoratore può successivamente incrementare.

È necessario sviluppare una maggiore consapevolezza collettiva su questi temi, sia da parte degli imprenditori sia dei lavoratori, che saranno i beneficiari di questi futuri pacchetti retributivi. Inoltre, per competere efficacemente nel mercato del lavoro, dobbiamo spostarci verso un’economia più concorrenziale, che richiede interventi sia dal lato della domanda sia dell’offerta».

Quali sono, a livello economico, le prospettive dell’Italia e dell’Europa per i prossimi anni?

«La situazione dell’Eurozona presenta sfide significative, essendo costituita da Paesi economicamente avanzati con esigenze specifiche, come l’assistenza ad una popolazione che invecchia. Tuttavia, credo che in Italia ci sia ancora un dinamismo intellettuale che può portare ad uno sviluppo del Paese. È fondamentale che le decisioni politiche siano prese con una visione di lungo termine, puntando su interventi economici selettivi. L’obiettivo dovrebbe essere incentivare l’imprenditoria e la crescita delle aziende italiane, con l’ambizione di sviluppare imprese più grandi rispetto a quelle attuali. Per competere efficacemente a livello internazionale, dobbiamo aspirare a diventare una nazione di medie imprese, non solo di micro e piccole.

Al fine di sfruttare le opportunità future, è necessario stimolare investimenti in capitale umano, ricerca e sviluppo. I progressi in tecnologia e l’uso dell’intelligenza artificiale richiederanno flessibilità, esperienza e competenze che attualmente potrebbero mancare. Dobbiamo quindi lavorare per comunicare queste opportunità e incoraggiare tutti (studenti, aziende e amministrazioni pubbliche) a prepararsi per questi cambiamenti. L’Italia dovrebbe avere le energie per farlo. Però c’è bisogno di una classe dirigente che sia disposta a prendere decisioni, anche se impopolari. Troppo spesso, le decisioni politiche sono prese con l’obiettivo di guadagnare popolarità piuttosto che con una visione a medio-lungo termine. La produttività del Paese incontra ostacoli come un apparato burocratico pesante e un sistema giudiziario inefficace nel far rispettare i contratti. Eppure, nonostante queste problematiche siano ben note, le riforme avanzano a scatti, senza risolvere definitivamente i problemi». ©

📸 Credits: Canva.com

Articolo tratto dal numero del 1 diciembre 2023. Abbonati!

Laureato in Economia, Diritto e Finanza d’impresa presso l’Insubria di Varese, dopo un'esperienza come consulente creditizio ed un anno trascorso a Londra, decido di dedicarmi totalmente alla mia passione: rendere la finanza semplice ed accessibile a tutti. Per Il Bollettino, oltre a gestire la rubrica “il punto sui Mercati”, scrivo di finanza, crypto, energia e sostenibilità. [email protected]