giovedì, 13 Novembre 2025

Rizzitelli, Assist: «Nelle Federazioni sportive nazionali il gender pay gap non deve esistere»

Rizzitelli

Le atlete sono capaci di muovere un pubblico sempre più vasto, attirare nuovi sponsor e rappresentare un punto di riferimento per giovani e non, ma i loro diritti economici e professionali restano incompiuti. «La partita più difficile che lo sport femminile si trova oggi ad affrontare è fuori dal campo: quella per il riconoscimento di un lavoro a tutti gli effetti, per tutele adeguate e per stipendi meno lontani dai colleghi uomini», dice a il Bollettino Luisa Rizzitelli, Presidente e fondatrice di Assist, Associazione Nazionale Atlete.

Il tema non riguarda solo il calcio, ancora oggi grande traino di tutto lo sport mondiale. Nel 2023, le donne hanno rappresentato oltre il 40% degli atleti italiani che hanno conquistato medaglie in competizioni internazionali. Nonostante questo, continuano a scontrarsi con un sistema che inquadra la maggioranza delle discipline femminili come dilettantistiche.

Cosa vuol dire, nel pratico? Che un’atleta con guadagni superiori a 5mila euro l’anno viene costretta a un contratto Co.co.co o a una partita IVA. Quindi nessun periodo di ferie, tutele ridotte sulla maternità e scarsa protezione previdenziale.

rizzitelli

Il quadro italiano ha peculiarità uniche. Da un lato, c’è il tema dei gruppi sportivi militari. Circa 1.000 atleti hanno un contratto a tempo indeterminato nelle Forze Armate. Il motivo? È l’unica soluzione che garantisce stabilità, ma allo stesso tempo solleva dubbi sull’impiego di risorse pubbliche e sulla reale autonomia delle Federazioni. Dall’altro, a livello di Governance oggi solo 2 federazioni su 50 hanno una donna Presidente, un dato che riflette la scarsa rappresentanza ai vertici decisionali.

Eppure, i segnali di cambiamento ci sono. La riforma dello sport ha avviato un processo di equiparazione normativa tra atleti e atlete, aprendo la strada a un dibattito più ampio su diritti, contratti e tutele. Crescono i movimenti associativi, cresce l’attenzione dei media e cresce soprattutto la consapevolezza delle stesse atlete, che chiedono pari opportunità non come concessione, ma come diritto acquisito. «Il primo tema, che riguarda sia uomini sia donne, è che il lavoro sportivo non ha ancora un riconoscimento conforme alla realtà.

Il lavoro di un atleta oggi viene inquadrato, peraltro obbligatoriamente quando l’atleta prende più di 5mila euro all’anno, come un lavoro coordinato e continuativo, quindi con i famosi contratti Co.co.co. Oppure gli viene chiesto di aprirsi una partita IVA», sottolinea Rizzitelli: «costringiamo delle persone che, di fatto, in un certo periodo della loro vita fanno un lavoro del tutto simile al lavoro subordinato, a vivere con una forma di riconoscimento lavoristico completamente sbagliata e non rispondente alla realtà. Da ciò consegue che i diritti e le tutele sono sicuramente inferiori e l’esempio più grave riguarda la tutela della maternità. È tutelata come è previsto per quel tipo di contratto, quindi con quello che prevede un Co.co.co. o la partita IVA. Noi, invece, crediamo che debba essere tutelato come accade nel lavoro subordinato».

Il Presidente della Lega Pallavolo Femminile, Mauro Fabris, ha detto a il Bollettino che il professionismo rischia di essere controproducente perché molte società non riuscirebbero a sostenere gli oneri finanziari: condivide?

«Devo premetterle che la riforma dello sport ha superato il riconoscimento tra maschi e femmine, perlomeno dal punto di vista del diritto del lavoro. Per l’ordinamento sportivo, invece, solo le calciatrici sono ritenute professioniste, perché la FIGC ha compiuto un riconoscimento vero e proprio. Tutte le altre donne sono dilettanti. Mentre nel maschile, l’ordinamento riconosce quattro discipline sportive. Ma per quanto riguarda la situazione lavoristica, ciò che ha detto il Presidente Fabris è il grande alibi, secondo noi inaccettabile, che viene sempre opposto al riconoscimento di diritti che sono fondamentali: non possono dipendere dalla capacità economica dei datori di lavoro.

rizzitelli

Per fare un esempio, noi non possiamo dire che le persone che raccolgono i pomodori nei campi non meritano tutela perché l’azienda agricola fa fatica a sopravvivere. I diritti dei lavoratori e delle lavoratrici sono e devono essere rispettati. Voglio ricordare che Fabris rappresenta le società di Serie A, che hanno svariati milioni di euro di fatturato l’anno e che pagano, giustamente aggiungo, atleti di alto livello anche centinaia di migliaia di euro. Poi, che ci siano associazioni sportive che per avere uno, due o tre atleti pagati possano avere delle difficoltà, perché il costo del lavoro subordinato è sicuramente più alto, posso capirlo. Va sicuramente fatto un intervento a sostegno di questo passaggio. Quello che accade nel Mondo dello sport italiano è non solo inaccettabile, ma è un’anomalia gravissima. Si trascura il dovere e il diritto fondamentale alle tutele dei diritti di lavoratori e lavoratrici.

I Presidenti delle associazioni sportive si oppongono. Addirittura Gabriele Gravina, Gianni Petrucci e Giuseppe Manfredi, che sono Presidenti rispettivamente delle Federazioni di calcio, basket e pallavolo, quando c’è stata la riforma dello sport tre anni fa hanno scritto al Presidente del Consiglio per fermarla. Poi fortunatamente è stata approvata, perché almeno la riforma un passetto in avanti l’ha fatto. Io sono stata atleta per 15 anni, ho giocato a pallavolo. Come me, centinaia di migliaia di atlete hanno vissuto con delle scritture private, che altro non erano che un compenso in nero».

rizzitelli

E per quanto riguarda le tutele della maternità?

«Le dobbiamo riconoscere. Su questo tema, si dovrebbero fare delle domande i dirigenti dello sport italiano. Com’è possibile che noi abbiamo atlete che arrivano a 30-35 anni e non sono riuscite ad avere un figlio? Ce lo ha spiegato benissimo Tania Di Mario, che è una campionessa olimpica di pallanuoto. Ha dichiarato che lei voleva avere un figlio, ma non si è azzardata a farlo perché sapeva che non solo avrebbe perso lo stipendio, ma sarebbe stata immediatamente messa fuori squadra».

Il gender pay gap è centrale anche nello sport: a che punto siamo?

«Intanto puntualizzo una cosa: la faccenda è grave quando a pagare sono le realtà che vivono di soldi pubblici. Diverso è quando a pagare sono delle realtà private. Mi spiego meglio. Se la giocatrice Cristiana Girelli gioca nella Juventus e ha uno stipendio 200mila euro, invece che 20 milioni come un calciatore uomo, questa è una cosa che io non mi sento di contestare. Perché quella è una trattativa privata, una gestione privata dello stipendio degli atleti, e molto dipende dal Mercato. Quello che invece io contesto è quando, per esempio, ci sono i premi internazionali dati dalle Federazioni sportive nazionali, che vivono di soldi pubblici, quando si decidono le diarie, quando si decidono le borse di studio, quando si decidono gli investimenti che si fanno sulle nazionali maschili o femminili. Lì assolutamente il gender pay gap non deve esistere. Ovviamente capita in Italia, ma anche a livello internazionale».

sport femminile

Quanto pesa la disparità negli investimenti commerciali e nelle sponsorizzazioni sullo sviluppo dello sport femminile?

«Tantissimo, è un cane che si morde la coda. Ci sono pochi investimenti, gli stipendi sono più bassi, la visibilità è inferiore. Però c’è un tema su cui soprattutto io, con l’Associazione Atlete, punto il dito: il servizio pubblico dovrebbe dare una stessa visibilità agli sport maschili e gli sport femminili. Questo, già di per sé, incoraggerebbe molto le sponsorizzazioni a crescere e a essere presenti sia nello sport maschile sia in quello femminile. Quindi, sicuramente la presenza economica degli sponsor condiziona tantissimo, ma nella stessa maniera la presenza degli sponsor è condizionata da una scarsa visibilità degli sport femminili. Se le dico che il softball femminile ha vinto 24 titoli europei, lo sapeva? Non lo sapevo nemmeno io, ma ovviamente di questa cosa non c’è traccia».

 Quali Paesi rappresentano un modello virtuoso in diritti e riconoscimento economico delle atlete?

«Il sistema francese è molto valido dal punto di vista delle tutele e del riconoscimento del professionismo delle atlete. C’è un bel lavoro sul discorso della doppia carriera, cioè di come far continuare a formare atleti e atlete mentre sono in piena attività. Abbiamo poi il modello canadese e il modello americano, dove c’è lan realtà dei college: una possibilità per le atlete di avere un percorso sia scolastico sia professionistico. Noi come Italia, da questo punto di vista, siamo molto indietro. E poi c’è un altro tema che sta molto a cuore alla nostra Associazione, quello dei “gruppi sportivi militari”. A noi non piace per niente…».

sport femminile

Ci spieghi meglio

«Il gruppo sportivo militare prende un atleta dall’associazione sportiva del territorio, e questo per noi è già un male, e lo assume. Ma perché riesce a essere così attrattivo? Perché si firmano contratti a tempo indeterminato. Nello sport “non militare” sei un Co.co.co o una partita IVA, lì invece hai l’indeterminato. Noi infatti abbiamo lo sport italiano d’élite, quello che vince le medaglie, militarizzato al 95%. E alla fine sono soldi nostri, sono fondi pubblici.

E tra l’altro vengono tolti atleti alle associazioni sportive che invece, sul territorio, avrebbero tanto interesse a poter vantare il campione o la campionessa di turno. Nessuno parla, ad esempio, dell’atleta non militarizzato che, dopo aver finito di lanciare il giavellotto ad alto livello, deve tornare dietro la scrivania. Oppure di quanto successo a un campione olimpico, che oggi fa l’autista per il colonnello. Questa è la doppia carriera che stiamo garantendo agli atleti?  Di fare, poi, i militari? E aggiungo: non è che non costino. Quando un atleta viene assunto, costerà 50mila euro all’anno? Abbiamo quasi 1.000 atleti che sono nei gruppi sportivi militari. Moltiplichiamo 1.000 per 50mila, fa 50 milioni, questi sono soldi pubblici che potremmo dare alle associazioni sportive. Perché dobbiamo gravare sui militari che devono fare un altro lavoro?».

Quali sono le priorità da portare sul tavolo delle istituzioni e delle federazioni per garantire diritti, tutele economiche e pari opportunità alle atlete?

«Noi, come Associazione Nazionale Atlete, abbiamo due priorità. La prima è di far costituire al Dipartimento per lo sport un tavolo tecnico istituzionale con decreto, dove si mettono tutte le parti sociali per capire perché l’Italia è ancora così vergognosamente indietro su tanti punti di genere. E ne aggiungo un altro, la rappresentanza: abbiamo due donne Presidenti federali su 50. Poi capire quali sono i problemi rispetto alle tutele della maternità, del lavoro e dello sport femminile più in generale. Quindi un tavolo insieme al Dipartimento per lo sport, ma anche altre commissioni specifiche in ognuna delle Federazioni Sportive Nazionali. Io voglio andare in Federazione Italiana Pallavolo e discutere con le persone di quello sport di che cosa non funziona nella pallavolo. Se non ne parliamo e non ci confrontiamo, come sperano di risolvere le cose?».©

📸Credits: Canva

Articolo tratto dal numero del 1° novembre 2025 de Il Bollettino. Abbonati!    

Sempre pronto a rinnovarmi e ad approfondire ogni giorno i temi che mi appassionano, credo che il giornalismo abbia una responsabilità enorme nella società. Per il Bollettino scrivo di sport e tecnologia, mi occupo anche di economia, attualità, musica e cinema.